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eJournalism, l’italiano ai tempi del web

di Redazione Lsdi.it |

Quanto è cambiato il modo di comunicare nell’era di internet? Che fine sta facendo la lingua italiana?

eJournalism è una rubrica settimanale promossa da Key4bizLSDI (Libertà di stampa, diritto all’informazione). Per consultare gli articoli precedenti, clicca qui.

Lo scorso 6 maggio nella cornice maestosa e solenne dell‘Accademia della Crusca si è svolto il primo evento dell’edizione 2016 di “digit“, la manifestazione dedicata al giornalismo digitale realizzata da Lsdi, giunta quest’anno alla sua quinta edizione. L’evento, intitolato: “I linguaggi della rete”, è stato realizzato con l’indispensabile collaborazione dell’Ordine dei giornalisti della Toscana e della stessa Accademia della Crusca ed ha erogato crediti per laformazione professionale continua dei giornalisti. Il panel cui hanno partecipato: il presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini, il presidente dell’Ordine dei giornalisti della Toscana Carlo Bartoli, il sociologo dei media digitali Giovanni Boccia Artieri, la presidente di Wikimedia Italia Frieda Brioschi, la responsabile comunicazione di Google Sud Europa Simona Panseri e il responsabile della comunicazione digitale di Eni Daniele Chieffi, è stato diffuso in streaming ed è stato ripreso integralmente dalle telecamere di Sesto tv. Di seguito troverete alcuni estratti del testo degli interventi dei relatori e i 4 video della giornata di lavoro. L’edizione 2016 di digit ( #digit16 ) si terrà il 21 e 22 ottobre presso la Camera di Commercio di Prato.

Domanda: Ci sono persone che ci vedono in streaming da remoto, è comprensibile questa domanda, usereste questa terminologia?

Daniele Chieffi: non è un modo, è la modalità con cui bisogna gestire la comunicazione, io come comunicatore devo riuscire a trovare tutti gli strumenti possibili per raggiungere i miei utenti.

Giovanni Boccia Artieri: sì la lingua si trasforma attraverso le nostre pratiche noi viviamo pratiche oggi attraverso le app e i linguaggi, parole che diventano pratiche vive. La platea non è l’unico pubblico. Cambia l’idea del convegno chiuso che si apre all’esterno e all’interazione, e anche la platea del live interagisce con noi sul web e non solo parlandone a voce.

Frieda Brioschi: non direi interloquiscono, e non direi da remoto perché il concetto di remoto separa, Le persone partecipano, in maniera diversa, ma partecipano. Io vengo da un progetto online – Wikipedia – quando l’abbiamo portato dal vivo le persone hanno protestato.

Carlo Bartoli: è una spiegazione comprensibile e che userei, sintetica e chiara

Claudio Marazzini: esistono dei prestiti che sono tecnicismi non facilmente sostituibili, streaming è uno di questi, cloud lo posso sostituire, streaming più difficilmente, e se ne fa largo uso. Qui all’Accademia usiamo molto lo streaming sia per eventi che per attività dell’accademia stessa, abbiamo fiducia nello strumento. Però credo che occorra nell’uso di questi strumenti una profonda coscienza della diversità tra virtuale e reale. Non sono la stessa cosa. La regia è importante in questi fatti. Lo streaming è diverso che essere dal vivo. Chi vede questo evento in streaming, i giornalisti collegati ad esempio, non hanno diritto ai crediti formativi. Il dibattito che può sorgere qui live è molto diverso da quello che può crearsi online. Due canali importanti, ma diversi. Anche la didattica potrebbe cambiare radicalmente grazie a questo tipo di collegamenti. Sarà la stessa cosa? Ci saranno conseguenze? Bisogna avere coscienza della diversità dei mezzi.

Domanda: Google ha preso il posto del dizionario?

Simona Panseri: Oggi ci sono online circa 2mld di persone nel mondo, entro il 2020 saranno oltre 5 mld. La maggior parte va online con strumenti mobili. In Italia ci sono circa 22 mln di persone online, oltre 18 mln quotidianamente da mobile. Su Google ogni giorno vengono effettuale mld di ricerche, il 15% delle ricerche quotidiane sono nuove, ovvero la combinazione delle parole inserite è nuova, non è mai stata posta prima, e vengono sempre più usate dagli utenti frasi del linguaggio comune per formulare le ricerche. Il 30% delle ricerche sono locali, basate sul luogo in cui mi trovo e sono prevalentemente informazioni di servizio. Che impatto ha tutto questo sulla lingua? Il dispositivo mobile si geolocalizza e se ti trovi in un paese diverso dal tuo il dispositivo ti consente di fare ricerche locali nella tua lingua. Notiamo anche una costante crescita delle ricerche vocali. Non si digita più ma si pone una domanda direttamente a voce. Il motore di ricerca deve essere sempre più capace di leggere e comprendere non solo come sono scritte ma anche come sono pronunciate le parole nelle varie lingue del mondo.

Daniele Chieffi: non solo ha preso il posto del dizionario, ma ci da tutte le risposte di cui abbiamo bisogno. E’ vero che Google si sta attrezzando per rispondere alle mie domande vocali. Dal punto di vista del linguaggio costringe noi ad adattarci alla macchina. Dobbiamo parlare come la macchina, fare in modo che la macchina sia in grado di capirci. Forse ci penalizza? Gli algoritmi ci impongono di modificare il nostro linguaggio non posso dire al telefono chiama la mia ragazza? Devo scandire un nome e un cognome. Non è un linguaggio naturale. E’ un tramite, uno slang che unisce l’uomo alla macchina. La punta di un iceberg, che rappresenta tutto il modo in cui ci adattiamo quotidianamente, adattiamo i nostri comportamenti online a seconda dei devices e delle piattaforme in cui operiamo. Quello che registro nel mio lavoro è quanto il linguaggio digitale sia profondamente diverso rispetto alla lingua che uso nel quotidiano.

Carlo Bartoli: L’algoritmo è un argomento da approfondire. Inteso ad esempio come un artificio che sostituirà in automatico il lavoro di alcuni giornalisti. Associated Press e le Monde stanno sperimentando l’algoritmo che scrive per redigere articoli sulle elezioni o per redigere articoli sui bilanci delle aziende. La qualità degli articoli non potrà essere garantita dall’algoritmo. E’ cambiato il modo con cui noi attingiamo alla informazioni: orari, luoghi, modalità. Non esiste più il monopolio del giornalista sulla diffusione delle informazioni. Lavorando sul web si assiste alla rottura dei canoni. Se compro il Sole 24 ore decido di accettare un linguaggio di un certo tipo. Io che scrivo sul Sole so che chi mi acquista ha già accettato il mio linguaggio. Online questo patto non esiste più. Devo riformulare il modo in cui mi pongo rispetto al mio lettore. Devo rivedere i miei canoni. I parametri che do per scontati come giornalista devono essere completamente ridiscussi, il linguaggio è uno di questi.

Frieda Brioschi: non è solo la tecnologia che modifica il nostro linguaggio siamo anche noi che modifichiamo la tecnologia. Pensate a qualche anno fa e a come cercavamo sui motori di ricerca. I motori di ricerca non indicizzavano, dovevamo conoscere quello che cercavamo. Piano piano abbiamo imparato a fare ricerche per parole chiave. Ora che il bacino di utenti che cercano è aumentato in modo esponenziale è anche cambiato il modo di relazionarsi con il motore di ricerca. Oggi le persone non sono più disposte a ragionare per parole chiave. La tecnologia si è adattata ai bisogni delle persone. Le domande vengono poste in linguaggio naturale ora e funzionano di più e meglio perché il motore impara dai comportamenti degli utenti. Google ha dovuto imparare cosa volevano le persone nelle loro ricerche. Questi sistemi si chiamano “machine learning”.

Claudio Marazzini: è meraviglioso l’adattamento dei motori di ricerca al linguaggio naturale. Una cosa davvero eccellente. Uno dei problemi dei motori di ricerca a scopo scientifico è proprio non essere così affini alle necessità dell’utente. Sono sempre commosso dal rispetto per la pluralità delle lingue. Il plurilinguismo è una delle finalità dell’Accademia della Crusca. La rete dimostra una disponibilità alla pluralità delle lingue, ad esempio Wikipedia e tutte le centinaia di versioni diverse. Addirittura in piemontese. Microsoft con i programmi di scrittura mette a disposizione delle persone variabili linguistiche. Google traduttore è uno strumento eccellente. Si può scavalcare l’inglese, e tradurre anche vocalmente dalla propria lingua a quella in cui vogliamo esprimerci. La lingua della rete? Scrivere meglio in rete? La rete credo che offra tutta la variabilità della vita. Pensiamo alla lingua dei giornali, della radio, della televisione. La rete ha ancora più variabili, ci scrivono tutti. In rete tutti i linguaggi avranno sempre spazio. Non è un posto dove si possono o si devono dettare delle regole. Perché risponde alla infinita variabilità degli usi. Viviamo in un epoca piena zeppa di profeti – falsi profeti – c’è sempre qualcuno che profetizza invano. 20 o 30 anni fa qualcuno profetizzava che la lingua parlata avrebbe ucciso la parola scritta. Ebbene la rete ha smentito questa profezia, ora si scrive molto più di sempre. Non so se i sistemi di interpretazione della voce potranno far pendere la bilancia fra parlato e scritto, per ora lo scritto continua ad avere una enorme importanza.

Domanda:la variabile video, parliamo di YouTube

Simona Panseri: nel mondo vengono caricate 400 ore di video ogni minuto, you tube è uno dei servizi di Google che ha più di un mld di utenti. Uno dei servizi per esprimersi in modo globale. In Italia YouTube ha 27 mln di utenti. La lingua parlata nei filmati definisce in modo automatico il bacino di utenza. Una sola lingua limita il potenziale dei possibili utenti del filmato. Chi decide di utilizzare YouTube per trasmettere un messaggio assume con consapevolezza la decisione sul linguaggio da usare. Ci sono youtuber italiani che comunicano in inglese proprio per ampliare il proprio bacino, e al contrario altri che usano la lingua per dirigere meglio il proprio messaggio. Ci sono youtuber che comunicano in video senza usare la lingua: i disegnatori, i fumettisti.

Ci sono strumenti che YouTube mette a disposizione in automatico per gli utenti per ampliare il proprio bacino di utenza ad esempio i sottotitoli, non professionali ma certamente di aiuto per questo approccio.

Daniele Chieffi: quanto il linguaggio video impatta nella comunicazione corporate? L’immagine sta diventando sempre di più il linguaggio più diffuso online. Perchè nei device mobili, gli smartphone, si legge con difficoltà la parola scritta, mentre un video si guarda meglio. Quasi il 70 per cento degli accessi in rete viene dal mobile.

C’è un deficit del 25% nella fruizione del linguaggio scritto su uno schermo, se questo è piccolo, il deficit aumenta anche fino al 40%.

I livelli di attenzione che ognuno di noi riesce a dare sono circa di 6 secondi e mezzo, qualche anno fa erano 8 secondi. Siamo poco attenti e poco portati all’approfondimento. Siamo molto più esposti ad altri tipi di linguaggio, soprattutto linguaggio per simboli, come è il video. Tutte le aziende anche i giornali stanno virando verso una comunicazione molto più grafica e molto meno scritta. In questo i video giocano una parte sempre più importante. Si tratta soprattutto di short video. Oltre il minuto e mezzo perdiamo attenzione e utenti. Il video deve essere costruito con un attacco esplosivo, anche perché partono in autorun, non si va più nella pagina home del video, ma li subiamo direttamente dentro il social media in cui stiamo navigando. Le aziende cercano chi sa fare comunicazione visual e chi la sa progettare e pensare.

Domanda: gli youtuber hanno una funzione sociale e se sì quale?

Giovanni Boccia Artieri : uno che si autodefinisce youtuber deve essere un pochino sfigato secondo me. E’ come all’epoca dei blog, definirsi un blogger non significa dire che svolgi una professione. Sono un instagramer perché uso Instagram? In Italia abbiamo due società che si occupano di produrre youtubers professionalmente e ci fanno soldi e business. Poi ci sono persone che caricano video su YouTube e li diffondo e comunicano. Ragazzi e ragazze che fanno tutorial da pari a pari. Una dinamica è quella della celebrità. Tutti noi sappiamo come funziona il divismo. I fan. Le celebrità. Altra cosa è avere un canale YouTube per esprimersi. Cosa muove le adolescenti di 12 anni a fare video tutorial su come ci si fa le unghie? Video, tra l’altro, fatti spesso benissimo anche come scrittura e compilazione.

Facebook ha dovuto introdurre le reaction per modulare meglio le reazioni del pubblico, anche per segmentare meglio il proprio pubblico.

Noi parliamo di un ambiente molto complesso in cui la scrittura si è modificata in un modo molto complesso. Sia per chi scrive, sia per chi legge, guarda, ascolta.

Dentro YouTube i video si parlano, si rispondono. Vengono fatti dei “contro video” con cui si dialoga.

Dentro i post vengono inserite gif animate con situazioni tipo che significano qualcosa. Spezzoni da film e telefilm. Scritte, stati emotivi. Arricchire la reazione attraverso linguaggio non più scritto. Messaggi vocali su WhatsApp e Telegram. Si crea una polifonia particolarmente interessante.

Il nostro cervello non è fatto per leggere, ricordo il libro di Maryanne Wolf “Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che legge”. Il cervello tratta le lettere come dei singoli oggetti. Il cervello umano percepisce il testo scritto come una specie di paesaggio. Un libro ha una struttura definita per orientarci dentro questo paesaggio. Dentro gli schermi questo contesto manca, manca la mappatura. I testi delle news mancano di riferimenti. Gli ambienti saranno sempre più belli per farci rimanere dentro a leggere e interagire con i contenuti.

Su Telegram alcune testate di informazione generaliste stanno sperimentando un canale di informazione verticale. Dove si inserisce un contenuto senza reazioni. Cosa viene messo dentro? Gif animate, stiker, siamo alla scoperta e allo studio di un nuovo linguaggio consono all’ambiente di Telegram. Pensate a stiker di personaggi celebri che possono fungere da reazione a notizie e altri contenuti.

Devo veicolare lo stesso contenuto in canali diversi per inseguire nuovi lettori. Lo stesso tipo di formato regge oppure deve essere modulabile? Dobbiamo rimodulare i nostri messaggi per cercare nuove armonie con i nuovi ambienti in cui i nostri lettori si muovono.

Non sappiamo come capitalizzare i commenti al nostro contenuto, il retweet di un nostro contenuto. Come tradurre la qualità alla quantità.

Daniele Chieffi: I giornalisti con il digitale hanno perso il potere di costruire il significato. E’ un processo che non controlliamo più, non completamente. Il contenuto mediale che noi andiamo a inserire in questi contesti subisce un processo che modifica il contenuto stesso e la sua percezione sui lettori. Il processo diventa partecipato e condiviso e quindi ne muta il contenuto.
Ogni piattaforma è portatrice a sua volta di un contenuto in se. Se io pubblico lì sto mandando un meta messaggio insieme al contenuto che pubblico.

Perché il contenuto che pubblichiamo realizzi il suo messaggio dobbiamo conoscere la valenza della piattaforma in cui lo pubblicheremo e servircene ma non esserne strumentalizzati.

Frieda Brioschi : i giornalisti di solito copiano da Wikipedia. Il giornalismo ha ignorato per molti anni la rivoluzione digitale e ora si merita di essere all’inseguimento e non all’avanguardia. Nel 2000 facevo l’erasmus in Finlandia. Il Corriere della Sera pubblicava una versione online in pdf. Unico esperimento fatto dalla stampa mainstream italiana in 15 anni. Davvero poco. Il passo successivo al pdf è stato fare una versione online che non aveva nulla a che vedere con l’edizione cartacea per la quale sono stati massacrati. I coccodrilli di Wikipedia ripresi dai giornali con un sacco di errori, senza alcuna verifica o controllo, significa replicare errori all’infinito e imbottire il web di errori. Ma la colpa non è di Wikipedia, noi siamo dei dilettanti. Voi siete i professionisti dell’informazione. Voi perpetuate l’errore.

Claudio Marazzini : viviamo in un momento in cui per la prima volta il processo della scrittura può essere più veloce del processo del leggere, e peggio può essere che si scriva con il copia incolla qualcosa che non si è letto. Si iperscrive e a quel punto si vanifica il processo di lettura. Chi fa indagini linguistiche fa i conti con un fatto che se un testo finisce in rete viene replicato all’infinito grazie agli strumenti della rete. Quindi attenzione non è che quel tale neologismo sia presente in tanti contesti ma viene visto da tanti grazie alla replica all’infinito che viene fatta di quelo stesso testo online. Oggi una casa editrice quando commissiona un testo ad un autore va in rete per controllare che questo testo non sia stato copiato.
C’è ad esempio un software di Google che si chiama ngram realizzato per altri fini che invece può essere molto utile nella ricerca linguistica. Non c’è innovazione linguistica nell’italiano d’oggi che non possa essere verificata e in tempo reale grazie a questi strumenti della rete, davvero assai utili. Credo che anche fra i giornalisti potrebbe essere utile provare ad usare questi ausili.

Carlo Bartoli : non equivochiamo fra i problemi del giornalismo e chi fa cattivo giornalismo. Non è il Presidente del Consiglio che è diabolicamente bravo a comunicare sono i giornalisti italiani che sono da sempre genuflessi al potere ed è un problema che si risolve molto più difficilmente che imparare ad usare un software.

Il fatto di copiare da Wikipedia riguarda il giornalismo che da sempre copia tanto e male e senza fare verifiche. Un giornalista può anche non scrivere bene. Vengono meno i confini, pagina, edicola. Il contenuto si libera del contenitore. Siamo in un grande flusso nel quale si perde il significato e quindi il giornalismo non ha più significato? Tutt’altro i giornalisti restituiscono il senso, il significato delle cose. Perde forza il contenuto, aumenta la forza del soggetto, del proponente, del giornalista. Adesso essere o meno dentro una grande redazione può non fare più la differenza. C’è una enorme accelerazione.

Il linguaggio è peggiorato con il web, non credo. Il web induce a scrivere peggio, non penso proprio. I contenuti di qualità torneranno ad avere valore. Tutto quello che c’è di più nuovo adesso è anche già visto, vecchio. Le novità di ora fanno ancora parte dei comandamenti per essere dei buoni giornalisti già presenti nei regolamenti, nelle carte deontologiche, nelle regole professionali di sempre. Tanti ambienti, tanti linguaggi, molti modi di raccontare una cosa. Prima il contenuto, poi devo preoccuparmi di raccontarlo nella maniera adatta. Il web non banalizza, anzi sul web assume significato e valore quello che è fatto bene. La mia professionalità, la mia etica, le mie scelte etiche fanno la differenza sugli utenti. Nemmeno i social banalizzano o corrompono la lingua. Nemmeno i 140 caratteri di twitter. Dobbiamo agire per sottrazione da giornalisti. I giornalisti non sono più al vertice della catena dell’informazione, non c’è più alcun “cardinale” che pontifica.

Daniele Chieffi: i social, il web, non sono uno strumento non sono un media non sono una modalità, ci troviamo difronte ad un ambiente, un ecosistema. Non esiste, purtroppo, nelle dinamiche digitali dire se io faccio bene il mio lavoro di giornalista ciò che conta è il contenuto e poi aggiusto il contenuto rispetto a dove lo pubblico. Non è così.

In Italia il 75% delle persone sono analfabeti funzionali, non sono in grado di comprendere un testo complesso.

Siamo in un mondo in cui l’attenzione viene meno dopo 6 secondi per ogni contenuto. Dove non si legge. Il medium è il messaggio. Tutti quanti noi condividiamo quello che ci prende d’impulso, dalla pancia. Foto e filmati di gattini e isis fra i più visti in assoluto. Il giornalista deve essere l’interprete più profondo delle dinamiche del mezzo senza diventarne schiavo. Lo strumento mai come in questo caso va ad incidere profondamente sulle dinamiche del lavoro. Anche nella comunicazione aziendale si verificano continuamente queste cose. Io mi trovo ad interagire quotidianamente con community di utenti che non hanno bisogno di me.

Il pubblico a cui ci rivolgiamo non ha bisogno di noi. Il nostro ruolo va ricodificato sia come giornalisti sia come comunicatori. Oggi il ciclo della comunicazione viene alimentato da chiunque. Io devo essere così bravo da farmi accettare da gruppi di persone che stanno già conversando fra di loro, non basta che io dica che sono di Eni o che dica che sono un giornalista. Non siamo più proprietari del potere di fare informazione. Dobbiamo riacquistare credibilità e autorevolezza con dinamiche completamente nuove. Va ripensato tutto il nostro ruolo.

Giovanni Boccia Artieri è evidente che noi ci siamo fatti un’idea dei lettori. Adesso i pubblici sono più visibili, consapevoli della propria visibilità, e sono visibili tra di loro. Quando scrivo e commento online mi confronto con le conversazioni che vengono fatte su di me, mi confronto con tutti in modo diretto, chiaro, esplicito e immediato.

Improvvisamente con la rete tutti i miei lettori sono consapevoli di esserlo e di poter dire qualcosa su di me, non solo a me ma anche fra di loro. Non sono i tuoi contenuti ma le conversazioni che i tuoi contenuti originano. La differenza sta proprio nell’interazione con la community. Non riguarda un formato e uno strumento ma la possibilità di conversare, produrre contenuti in modo diverso. Alla Stampa hanno scoperto che il buongiorno di Gramellini andava pubblicato gratis e online perché le fan di Gramellini riprendevano, fotografavano il buongiorno e lo ripostavano sul proprio profilo social. C’è dunque un illecito e violazione di diritti in questo, oppure l’impulso alla diffusione è un valore di qualità, un valore di qualche tipo che brandizza testata, giornalista e valori di altri tipi che non riusciamo a quantificare.

Claudio Marazzini: Bisogna conoscere il pubblico italiano, a proposito della ricerca del prof.De Mauro citata prima, per capire cosa vuole realmente, scaricatevi il rapporto dell’Ocse Piaac 2014

C’è il testo integrale in inglese, particolarmente interessante da leggere è il commento del linguista italiano Andrea Moro. Il rapporto si conclude con due grafici. Questo rapporto riguarda i cittadini da 16 a 65 anni. Gli italiani sono al penultimo posto sulla competenza matematica e all’ultimo nella capacità di comprendere un testo.

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