Il potere in mano di pochi: decisamente una spiacevole circostanza, quando si parla di mercato. Perché, si sa, il consumatore trae beneficio nei contesti di concorrenza: la qualità dei Servizi aumenta e il prezzo, molto spesso, tende a diminuire.
C’è tuttavia un ulteriore aspetto che, soprattutto quando il consumatore è la Pubblica Amministrazione, diventa particolarmente rilevante: la disponibilità di un bene o l’erogazione di un servizio non dovrebbe essere subordinata alle ristrettezze inevitabili di una piccolo lista di fornitori.
Se poi si tratta di un asset strategico per la Nazione come la pubblicazione di informazioni su Internet o l’erogazione dei servizi ai cittadini attraverso la Rete, l’attenzione a evitare un oligopolio dovrebbe essere massima.
Pagine web, trasparenza e design
Che si tratti di un aspetto decisivo nell’agenda digitale italiana ce lo fanno capire le norme che obbligano gli uffici pubblici alla massima trasparenza: devono infatti garantire ai cittadini la possibilità di accedere alle informazioni in modo organico e uniforme.
Ce lo conferma anche il Governo italiano, il quale addirittura mette a disposizione di chiunque una classifica dei siti web stilata a seconda della loro aderenza alle norme ed evidenzia pure quelli inadempienti, così che i “fannulloni” siano conosciuti ed esposti in piazza al pubblico ludibrio.
In questo stesso solco si innesta l’ultima norma, in ordine di tempo, circa il design dei siti della PA.
Dunque finalmente si riconosce alla pagina di informazioni in rete una piena e dignitosa importanza.
Il caso Aruba
Per questo, in una recente ricerca ho esaminato, tra i tanti possibili, il servizio di hosting per i siti web della PA, cioè la fornitura di quello spazio digitale predisposto ad accogliere la presenza degli enti pubblici su Internet.
La domanda di partenza è stata: dove risiedono i siti web degli uffici pubblici italiani?
Allo scopo ho considerato più di 17.000 nomi a dominio di pubbliche amministrazioni: oltre 8.000 Comuni, oltre 8.000 istituti scolastici, oltre 1.000 tra enti statali, regionali, economici ecc.
La graduatoria che ne scaturisce riporta quei fornitori che ospitano almeno 100 nomi a dominio ciascuno: si contano 23 diverse società (l’elenco è di 24 ma AS20746 e AS3269 appartengono allo stesso gruppo) le quali offrono hosting al 78,45% del totale.
La tabella riporta:
- la quantità di nomi a dominio ospitati da ciascun singolo fornitore (rappresentato dal numero identificativo)
- il Paese di pertinenza
- l’organizzazione internazionale (Regional internet registry) che ha erogato il sistema autonomo
- infine, la ragione sociale del fornitore.
Il dato più rilevante è quello rappresentato dal marchio che garantisce il servizio a 6.863 nomi a dominio, pari al 38,82% dei 17.679 nomi a dominio presi in esame.
Si tratta di Aruba (AS31034), società aretina con un capitale sociale interamente versato di 4 milioni di euro.
Ora, data per acquisita la capacità degli operatori di non perdere i dati che vengono loro affidati (grazie a sistemi di disaster recovery), ci si potrebbe a questo punto domandare cosa succederebbe se, ma è solo per fare un esempio, uno di questi fornitori, nell’ipotesi di assenza di business continuity, subisse un malfunzionamento tale da mettere fuori linea contemporaneamente migliaia di siti web di pubbliche amministrazioni, come un incendio, un black-out elettrico, un semplice errore umano o tutte e tre le circostanze contemporaneamente.
La risposta è semplice: verosimilmente chi subisse il disservizio (PA e cittadini) protesterebbe un po’ sui social network; forse uscirebbe qualche articolo sulla stampa, ma poi finito lì.
Può darsi però che le cose vadano diversamente, cioè che i titolari dei nomi a dominio fuori linea decidano di chiedere i danni al fornitore di hosting. Ipotizzando una cifra media di mille euro di risarcimento danni una tantum per l’incidente disastroso che interessi la sola PA (escludendo l’eventuale fattispecie penale di interruzione di pubblico servizio), i conti sarebbero presto fatti: 1milione di euro ogni mille siti irraggiungibili.
Il cloud della PA
Credo che la PA farebbe bene a ripensare questo modello di approvvigionamento delle risorse telematiche utili al perseguimento del bene pubblico.
In altre parole dovrebbe essere proprio la PA stessa a ospitare in casa propria i propri siti e servizi.
D’altronde, gli sforzi che negli ultimi anni sono stati prodotti per potenziare i grandissimi datacenter della pubblica amministrazione italiana, in architettura cloud, potrebbero essere messi a frutto rendendo disponibili servizi telematici ai singoli uffici, su tutto il territorio nazionale, che ne facciano richiesta.
Penso a Sogei, società per azioni tutta appartenente al Ministero dell’Economia e delle Finanze, la quale sin dal 2014 dichiara di essere capace di erogare servizi in cloud di tipo Infrastructure as a service.
Anche il GARR, la rete italiana dell’università e della ricerca, ha realizzato la propria infrastruttura cloud, per non nominare le realtà regionali che hanno imboccato da qualche anno la stessa strada: Mcloud (servizio della Regione Marche), TIX (servizio della Regione Toscana), Trentino Network (servizio della Provincia autonoma di Trento), solo per citare alcuni casi.
In tale contesto non si capisce davvero perché la Pubblica amministrazione non riprenda in carico la gestione del servizio di hosting che, detto per inciso, beneficerebbe di tutte le caratteristiche che una piattaforma cloud è in grado di offrire nella declinazione Platform as a service o, per quegli uffici con meno personale o competenze, Software as a service.