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Fra i tanti e certamente utili convegni sulla radiotelevisione italiana che si sono susseguiti in tempi recenti, le analisi che in varie occasioni hanno voluto concentrarsi soprattutto sul concetto di Servizio Pubblico non ha dato, a mio parere, risposte esaurienti. Chi scrive – da storico più che da massmediologo – si è trovato spesso in forte disaccordo con la maggior parte delle opinioni correnti, dal momento che, a suo parere, un vero e proprio concetto di Servizio Pubblico, nell’area dell’informazione e della diffusione culturale di massa, è estraneo a tutta la storia dell’Italia postunitaria. Nel Ventennio tra le due guerre il termine (a differenza dei maggiori paesi europei, tra i quali spicca la Gran Bretagna) non esiste neppure, e la concessionaria italiana delle trasmissioni radiofoniche, l’EIAR, è indissolubilmente legata alle normative stabilite dal regime fascista, cioè da una dittatura.
Nel secondo dopoguerra, benché il passaggio alla democrazia avesse radicalmente cambiato l’assetto istituzionale del Paese, la radio prima, e la televisione poi, sono ancora espressione di una cultura di massa condizionata, anche se in “forme” diverse, da regole statalistiche stabilite da un partito che, istituzionalmente, intende rappresentarne tutte le modalità, e dal quale queste stesse regole devono trarre persino la loro legittimazione. La grande abilità della Democrazia Cristiana, e la sua visione di una democrazia compiuta, fu infatti quella di decidere le forme “istituzionali” della cultura di massa con regole amministrative che a malapena tenevano conto delle ragioni di fondo indicate da altri schieramenti politici e, in particolare, da quelle dei partiti di sinistra. Il fatto che la radiotelevisione italiana degli anni cinquanta e sessanta abbia poi dimostrato di esprimere un genere di informazione e di intrattenimento di grande qualità non contraddice questa mia ipotesi, poiché il moderatismo cattolico, pur dissociandosi da tutte le voci che si andavano levando dai partiti e dai movimenti di opinione, seppe imporre abilmente un modello culturale di massa che doveva corrispondere innanzitutto alla rinascita democratica di un Paese, L’Italia, che era stato condizionato da vent’anni di dittatura e dalle distruzioni della guerra.
Tutto ciò dura fino alla riforma della RAI del 1975, quando dalla terminologia di “Programma”, Primo e Secondo, si passa a quella di “Rete”; e si affida la Prima alla DC e la Seconda al Partito Socialista. Nella Legge di riforma si prevede anche la nascita di una Terza Rete, a carattere regionale, realizzata con un patchwork di responsabilità corrispondenti a tutte le aree politiche democratiche. Si prevede inoltre una modifica strutturale della radiofonia. La DC si rende conto cioè che il potere sulla più grande agenzia culturale del Paese andava ormai condiviso con quei partiti dello schieramento liberale e laico, nonché socialista e comunista, che non solo avevano dimostrato (nel cinema, nel teatro, nella letteratura, nell’arte figurativa, nella musica) di poter esprimere un potenziale indiscusso di creatività e di ingegneria istituzionale; ma che avevano persino formato una eccellente classe dirigente in molti settori produttivi. In particolar modo l’industria delle comunicazioni di massa stava addirittura dimostrando quanto un esperimento di “condivisione” apparisse ormai il mezzo migliore per non disperdere una consistente eredità culturale, nonostante fosse stata – sotto molti aspetti – il frutto di una politica di “conservazione”.
La trasformazione della “Terza Rete” nella brillante e innovativa “Raitre” di Angelo Guglielmi, che inizia le sue trasmissioni nel 1987, rappresenta il coronamento di questo processo. Essa nacque da un accordo fra Biagio Agnes, Sergio Zavoli e Walter Veltroni e aveva l’obiettivo di aggiungere alle due prime reti della RAI – che iniziavano ad esser messe a dura prova dall’offensiva delle televisioni commerciali di Silvio Berlusconi – una Terza rete che, mediante un accordo che prevedeva l’ingresso a pieno titolo del Patito Comunista nell’arengo mediatico nazionale, avrebbe dovuto dare una definitiva fisionomia pluralistica all’idea di Servizio Pubblico.
Questo nuovo assetto, del quale non si possono trascurare alcuni meriti, in realtà ebbe solo la funzione di convertire una politica nazionale di comunicazione e cultura di massa, che avrebbe dovuto essere “al di sopra delle parti”, una semplice distribuzione di potere nella gestione del prodotto radiofonico e televisivo. Come è noto, tutta la RAI verrà assegnata, per “lotti” condivisi, alla responsabilità di quelle forze che più avevano dimostrato di saper interpretare le nuove istanze dell’intrattenimento di massa. Tuttavia ognuna di esse continuò esclusivamente ad esprimere, formulare ed imporre, una propria e distinta idea di quello che, da allora in poi, sarebbe stato definito, solo nominalmente, “servizio pubblico”.
Se, da un lato, è innegabile che quel periodo abbia visto, sia alla radio che alla televisione, una stagione esaltante, dall’altro, tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI, il panorama della radiotelevisione italiana si scompone in una variegata multiformità di voci, di suoni e di immagini, che non ha riscontro in tutta Europa e dove soprattutto le televisioni private, in particolar modo quelle della Fininvest di Silvio Berlusconi, destrutturano il rapporto con gli spettatori all’insegna di una concorrenza che mira a distruggere quanto resta del concetto di Servizio Pubblico. E’ il debutto anomalo della “modernità italiana”: fragorosa, brillante, permissiva, opulenta. Che trova infatti nelle reti private – fin dal momento in cui i grandi editori, per imperizia, le consegnarono nelle mani di Silvio Berlusconi – un approdo definitivo e sicuro. Ma è anche l’inizio del tentativo di rubricare impropriamente – ironia della sorte! – il prodotto della RAI come unico modello di “servizio pubblico”. Un prodotto che sarà costretto invece a rivelare le sue carte su tavoli dove si era iniziata a giocare una partita di tutt’altro genere: quella di una spietata concorrenza, alla quale la RAI dovrà soggiacere, non imponendo le sue regole, ma accettando quelle del competitore privato.
Come è noto, se in Europa ogni servizio pubblico, radiotelevisivo e non, si esprime in funzione del Paese in cui opera, la storia del Novecento italiano, per quanto riguarda i mass media, ci insegna invece che il Paese ha perseguito una strada diversa, ovvero quella di una competizione per l’egemonia tutta giocata sul terreno “privatistico” del competitore più forte – sia economicamente che politicamente – nonché applaudito dalle platee mediatiche che sembravano volersi addirittura disfare di qualsiasi remora morale. E ciò proprio quando l’Italia stava per essere ammessa nel “salotto buono” di una Europa unita e pacificata dopo i disastri del XX secolo.
Da quel momento, rimettere in discussione a più riprese, e cercare di definire finalmente i canoni istituzionali del concetto di servizio pubblico, hanno prodotto una quantità di dibattiti sempre meno credibili. Il tentativo di arrivare a definire un concetto condiviso e istituzionalmente forte del servizio pubblico radiotelevisivo italiano va fatta risalire al tempo (gli inizi degli anni ’80) in cui la nascita della televisione privata diffuse una sorta di panico, alimentato dall’idea che il mercato avrebbe, se non abbattuto, almeno tramortito la RAI. Da quel momento il dibattito si è concentrato sul terreno del rinnovamento della radio e della televisione pubblica, con l’obiettivo di determinarne un salto qualitativo, corrispondente a una politica editoriale di duplice lettura: dei suoi diritti e dei suoi doveri. Ciò significava far emergere una linea culturale coraggiosa, che il pur importante fattore ascolto, in un clima sempre più competitivo, non dovesse né sottovalutare, né sovrastimare.
Certamente la comunicazione incide nella nostra vita coinvolgendo la politica ma, al tempo stesso, non può esimersi dall’interpretare i valori dell’etica. In quel momento della nostra storia difendere una radiotelevisione di servizio pubblico significava molte cose: ottemperare a un contratto di servizio sottoposto a un organo di controllo che ne indirizzasse e vigilasse contenuti e comportamenti; pretendere un canone che consentisse di normalizzare il bilancio economico; impedire l’inaridimento delle fonti pubblicitarie. A fronte di queste certezze occorreva dispiegare una linea di prodotti in grado di ottenere una programmazione che fosse “funzione” del Paese reale, senza sottomissioni e senza imperialismi. Il canone avrebbe dovuto ritornare ad essere uno strumento di importanza strategica, considerato obbligatorio (attraverso esazioni coercitive), probabilmente ridotto, ma progressivamente riportato alla sua imprescindibile funzione istituzionale, come era accaduto nelle grandi democrazie europee. Si sarebbe cioè dovuto dar vita a un sistema mediatico frutto, da un lato, di uno strumento giuridico costituzionale ma, dall’altro, anche espressione di rigore, di norme condivise, di linguaggi in grado di esprimere il meglio della Nazione. Non v’è infatti più alcun dubbio che solo una comunicazione che sappia interpretare queste esigenze diventa uno strumento che garantisce il vero primato della politica. In caso contrario, può esserne soltanto un’interprete più o meno servile.
In un Seminario della Sapienza, nel giugno del 2015, qualcuno osservò che ogni volta che si parla di “servizio pubblico” radiotelevisivo lo si fa sempre con reconditi obiettivi di tipo “imperialistico”. E’ una osservazione suggestiva, sulla quale riflettere, perché da essa deriva la necessità di perseguire – nel caso della radiotelevisione pubblica – il suo esatto contrario, ovvero scoraggiare quel tipo di fosche mire che in più decenni hanno caratterizzato gli obiettivi dei competitori privati. Allora, quale arengo migliore, ai nostri giorni, se non il parlamento italiano, che rappresenta la sede più idonea per iniziare un dibattito fra tutte le forze politiche del Paese che consegni all’Italia, da un lato, una televisione commerciale che faccia il suo mestiere, all’interno di un nuovo sistema di regole, e dall’altro un servizio pubblico che faccia altrettanto?
Tenendo tuttavia presente – senza infingimenti – che la sua funzione, a differenza di quella privata, implica un obiettivo ulteriore e indefettibile: creare coesione sociale e condivisione morale. Non sono questi gli obiettivi di ogni Nazione che voglia dirsi davvero tale?
Ma l’Italia di questa metà del secondo decennio del nuovo secolo è ancora degna di essere chiamata una Nazione?
Non è una domanda retorica.
Avviandoci al punto centrale e conclusivo di questa nota ci si imbatte in una questione che va chiarita e l’autore di questa nota avverte subito che, se risulta difficile chiarirla, quantomeno va discussa. Gli sviluppi della televisione, a cavallo fra i due secoli hanno posto, a mio parere, a tutti noi una questione dirimente: che rapporto esiste ormai fra la televisione, diciamo soprattutto la televisione pubblica, e il compito, tipico di uno stato democratico, di documentare, rappresentare e narrarne le vicende?
Da molte parti si sente dire, anche autorevolmente, che ormai è nella fiction televisiva domestica che si rintraccia quella rappresentazione del paese cui ogni democrazia dovrebbe tendere. E’ una opinione da considerare con attenzione, in particolar modo per il Regno Unito e la Repubblica Federale di Germania, che hanno dato all’Europa modelli notevoli in questo campo. Ma va precisato che sono paesi nei quali l’evoluzione del mezzo non ha sconvolto gli assetti istituzionali delle rispettive televisioni pubbliche, che hanno invece continuato a dare al resto d’Europa modelli straordinari di narrazione (per fare solo qualche esempio, pensiamo ad Heimat per La Germania). In Italia solo Gomorra può essere avvicinato al modello tedesco pur non essendo un prodotto del servizio pubblico.
Suscita allora qualch perplessità la relazione, particolarmente insidiosa, che in anni recenti è andata sempre più rafforzandosi in Italia fra la più popolare forma di diffusione culturale di massa e la storia politica e sociale della nazione. Se guardiamo all’esperienza italiana da questa prospettiva ci si accorge che essa lascia aperti molti di quegli interrogativi che, nel corso degli anni, si sono intrecciati con la funzione e il ruolo che la tv ha avuto nel destino degli italiani. Se infatti ieri la televisione fu il risultato di uno straordinario sforzo propulsivo, oggi è lo specchio dell’incapacità di continuare a sostenerlo. La mediatizzazione di tutta la vita nazionale è divenuta a tal punto pervasiva da non riuscire più a farne riconoscere i segni distintivi.
Le criticità e le anomalie della situazione italiana sono note. Esse si riassumono in una modernizzazione senza sviluppo e priva di centralità strategica; nell’affievolirsi e, in alcuni casi, nella scomparsa dei grandi valori ideali e morali; nell’assenza di una forte e condivisa consapevolezza dell’identità nazionale. Un paese “mancato”, un paese “a civiltà limitata”, come lo hanno descritto, in due eccellenti libri, uno storico, Guido Crainz, e un economista, Paolo Sylos Labini. Una descrizione, si dirà, piuttosto lontana nel tempo, ma che le cronache contemporanee continuano a rendere attuale.
Come può allora una televisione di servizio pubblico riuscire a descrivere, o narrare, una nazione simile?
Oggi una descrizione istituzionalmente, oltre che emotivamente forte, della nazione italiana non può limitarsi solo a piccole storie private, ma deve trovare storie e argomenti forti all’altezza del popolo che vuol descrivere, a meno che tale popolo non meriti persino più di essere descritto. Il che non vale certo per l’Italia, che resta un grande paese. Credo allora che in questo momento il nostro servizio pubblico, nonostante le dichiarazioni e le promesse, sia debole proprio nella costruzione di un immaginario adatto a un’epoca tanto complessa, e quindi tanto fragile. Ed è un vero peccato, perché per molti anni non è stato così.
Il nuovo vertice della RAI, formalizzato dal governo Renzi nell’agosto del 2015, tenta ora di dare al concetto di servizio pubblico una armatura professionale con l’istituzione di una media company. E tuttavia si ha la sensazione che non vi siano solide idee chiare, che ci si muova in una specie di grande bolla d’acqua dove i pesci più grossi eliminino quelli più piccoli. I nuovi vertici della RAI, nominati da neppure un anno hanno lavorato in una logica meramente distributiva che forse non a caso è stata responsabile del brutto episodio di Porta a Porta allorché Bruno Vespa, in assoluta autonomia, ha immaginato lo scoop di invitare il figlio di Totò Riina. Un episodio – come tanti del resto – di politica spettacolo che sembravano ormai desueti; o, peggio ancora, di populismo per palati buoni.
Ma in tutto questo, è mai possibile che non si comprenda quanto la credibilità dei giornalisti, anche dei tanti ottimi professionisti di cui è piena la RAI, sia sottoposta al rischio di essere compromessa?
Questi inconvenienti non sono casuali; nascono da una concezione del consolidamento di una grande azienda, sottoposta alle direttive di un governo carismatico, il quale – ancora una volta – non si pone l’interrogativo di sapere che cosa debba essere un moderno Servizio Pubblico all’interno di un grande Paese europeo; quali regole debba adottare; quale funzione assolvere rispetto al Paese. E quindi si parla di media company, di piano industriale, ecc. senza avere innanzitutto stabilito quale debba essere il nuovo ruolo di “servizio pubblico” svolto della RAI in un Paese che sta mutando a vista d’occhio e che, fra non molti anni, potrebbe essere divenuto uno dei paesi multietnici maggiori d’Europa. E inoltre senza contare che la rivoluzione digitale comporterà per la RAI un grande sforzo ideativo e distributivo, e quindi nuovi linguaggi e nuove procedure. Paradossalmente – in chiusura di questa nota – si potrebbe fare persino l’ipotesi che l’adozione definitiva di una tecnica di trasmissione digitale potrebbe addirittura determinare la nascita di un vero servizio pubblico, con le sue caratteristiche di indipendenza e di autonomia.
Un servizio che possa essere addirittura fonte e non solo distribuzione di notizie.