Una vera seduta psicoanalitica, della serie In Treatment, vedere Il caso Spotlight, il film diretto da Tom McCarthy che sta facendo il pieno delle nomination per gli Oscar, per un giornalista. Ho visto colleghi uscirne prostrati, altri furibondi. I più sensibili commossi.
Rischiando il linciaggio, devo dire che ne sono stato invece rinfrancato. Quasi eccitato. Il reale è davvero razionale, come predicava Hegel. La trama è nota: siamo a cavallo del 2000 e nella capitale della comunità cattolica americana, come è Boston, scoppia il caso dell’omertà delle gerarchie ecclesiastiche sull’esteso fenomeno di pedofilia nelle parrocchie.
Il direttore del principale quotidiano della città, insieme alla sua redazione, decide di andare a fondo, non limitandosi ad una semplice denuncia del malaffare, ma vuole raccogliere tutte le prove per una circonstanziata accusa ai massimi vertici della diocesi, con il deliberato e lucido obbiettivo di far rimuovere i responsabili massimi dei crimini. Siamo al manuale del giornalismo perfetto.
Le suggestioni ovviamente sono davvero infinite.
Il film ti porta dentro la redazione di uno dei quotidiani più prestigiosi degli USA come il Boston Globe e ti fa vivere con un realismo naturale scene e circostanze classiche dell’immaginario del mestiere: giornalisti senza macchia e senza paura che normalmente consumano le mitiche suole delle scarpe per fare inchieste che smascherano i buchi neri del potere, sollecitati dalla direzione e non insidiati dalla proprietà.
La prima tentazione è ovviamente quella comparativa: noi e loro. Le conclusioni sono spietate ma aggiungono poco alla comprensione dell’attuale scenario dell’informazione. Loro sono marziani, nobili cavalieri con tanto di corazza e cavallo bianco, anzi troppo bianco, infatti, dettaglio non irrilevante, ma è la solita perfidia di un invidioso, in redazione non si intravvede nemmeno un collega di colore.
Noi, al confronto, sembriamo un formicaio di nani che si arrabattano in melmose e mediocri questioni di palazzo. Ovviamente l’aura della versione cinematografica rende tutto levigato e uniforme. Ma i fatti a cui il film si riferisce sono lì a testimoniare che l’essenza di quello che vediamo sullo scherma si è realizzata in un modo assai simile.
Dunque niente da dire: una grande pagina di storia professionale. Ma è storia, passata. Possiamo dire che Il caso Spotlight è uno straordinario documento storico, un vero reperto di archeologia recente: ci mostra come erano i giornali prima del big bang della rete. Quella che vediamo sullo schermo è l’ultima onda gravitazionale prodotta dall’impatto della rete con la stampa.
Poi inizia un’altra storia. Ad annunciarla, vagamente, nel film è la scena dei telefoni impazziti in redazione. Ad un certo punto infatti il giornale invita i suoi lettori a denunciare i casi di molestie da parte di prelati: succede ovviamente il finimondo. Centinaia e centinaia di telefonate assediano la redazione: quello è il segnale del Big bang, la rete sta entrando nel giornale. E non lo fa attraverso computer o software, ma attraverso la vera realtà di internet: l’ambizione di ognuno di noi di essere protagonista delle proprie notizie.
Ecco il meteorite che estingue i dinosauri. Il Film racconta Jurassic Park, quando il Tirannosauro era padrone delle praterie. Infatti la storia vera che racconta Sportlight non è quella di un grande scoop che si vede costruire dinanzi ai nostri occhi. Il vero concept del film è l’antefatto che irrompe alla fine del film, spiegando tutto: il capo della sezione Spotlight, che stava conducendo i suoi servigi a mordere il potere, qualche anno prima, quando era ancora capo cronista aveva insabbiato, non si capisce quanto consapevolmente, il caso pedofilia che era già tutto sotto i suoi occhi.
Gli orrendi avvocati che interpretano il male nel film, un pugno di spregiudicati professionisti che speculando sulla tragedia della pedofilia lucrano sulle cause di risarcimento alle famiglie, essendo americani, e dunque costituzionalmente buoni, si erano lavati la coscienza avvertendo il giornale dell’entità del fenomeno, addirittura inviando una lista con i nomi delle vittime e dei pedofili. Questa lista venne cassata, il prode capo di Spotlight la mise in un cassetto, ignorandola.
Collusione, clientelismo, subalternità? Forse solo senso di appartenenza alla casta del potere della città. Ma il dato centrale è che allora, solo per il fatto che il capo cronista del principale quotidiano di Boston ignorasse il fatto questo non esisteva, non aveva altra possibilità di affiorare, di circolare. Ora non è più così.
Lo strimpellare dei telefoni in redazioni annuncia che il giornalista, nel bene e nel male, non è più solo, e non è neanche il principale attore della scena: ora deve condividerla e negoziarla con i suoi lettori. Persino a Teheran, a Riad, a Pechino, nel cuore del califfato, i guardiani delle notizie sudano per rispondere alle mille chiamate al telefono che arrivano dalla rete. Il film ci mostra all’inizio l’arrivo del nuovo direttore, chiamato a risollevare un quotidiano già allora appannato – oggi vende il 30% in meno del 2001 – che annuncia alla redazione, laconicamente, di “voler rendere indispensabile il giornale ai suoi lettori”. Non è più quel tempo.
Lettori e algoritmi, ognuno per la propria parte e con i propri obiettivi, hanno peso d’assedio quella torre d’avorio. Bisogna ora ricominciare una nuova storia: o con i lettori o con gli algoritmi.