Il dibattito

ilprincipenudo. Consultazione pubblica sulla Rai: quale modello?

di Angelo Zaccone Teodosi (Presidente Istituto italiano per l’Industria Culturale - IsICult) |

Un possibile modello è quello de ‘La Buona Scuola’, un’altra soluzione è quella degli ‘Stati Generali’ promossi dal Ministero della Giustizia. Quale scegliere?

ilprincipenudo ragionamenti eterodossi di politica culturale e economia mediale, a cura di Angelo Zaccone Teodosi, Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult (www.isicult.it) per Key4biz. Per consultare gli articoli precedenti, clicca qui.

La controversa “mini” riforma della Rai è legge, ovvero quasi: approvata definitivamente il 22 dicembre 2015 dal Senato, ma curiosamente ad oggi 15 gennaio 2016 non ancora pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale… Si tratta di limature testuali ancora in corso, o si deve temere una mina vagante dal Colle?!

Vane riteniamo siano le speranze di chi ha cercato di fermarla “in extremis” la riforma Rai, come gli attivisti di IndigneRai – Associazione Rai Bene Comune, che il 27 dicembre hanno scritto una lettera aperta al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sostenendo che “siamo nelle sue mani e viaggiamo sulle onde della sua sensibilità costituzionale”.

 

La lettera-appello è firmata anche da MoveOn Italia – La Rai ai cittadini, Articolo 21, Appello Donne e Media, Arci, Associazione Stampa Romana, Assoprovider, Fials – Federazione Italiana Autonoma Lavoratori Spettacolo, Fiom Cgil, Giuristi Democratici, Liberacittadinanza, Libertà e Giustizia, Net Left, Sindacato Lavoratori Comunicazione Slc-Cgil, Snap Rai, Snater, Unams…

Diamo per scontato che Mattarella non vada a rinviare la legge alle Camere, anche perché andrebbe a provocare un “casus belli” di dimensioni storiche. Basti ricordare quel che avvenne nel 2004 con la legge n. 112, che fu rinviata alle Camere dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Si ricordi anche che Mattarella si dimise da Ministro della Pubblica Istruzione nel 1990 (VI Governo Andreotti) per protestare contro la legge Mammì (che – secondo alcuni – ha aperto la strada all’impero Mediaset ovvero all’allora Fininvest): ma son passati tanti anni, e forse la sua Weltanschauung è cambiata. Durante la gestazione della legge di riforma Rai, non ci sembra si sia registrato il minimo segnale di dissenso, nemmeno… in codice.

Come è noto, la nuova “leggina” sulla Rai prevede una consultazione pubblica, che rievoca quella consultazione tante volte evocata durante il dibattito pre-parlamentare, e purtroppo mai concretizzatasi: si tratta del comma 5 dell’articolo 5 (“Disposizioni transitorie e finali”), che recita: “5. Il Ministero dello Sviluppo Economico, in vista dell’affidamento della concessione del servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale, avvia una consultazione pubblica sugli obblighi del servizio medesimo, garantendo la più ampia partecipazione”.

La consultazione è frutto di un emendamento che – come abbiamo spiegato in dettaglio su queste stesse colonne (vedi “Cultura e media in Italia: i numeri del 2015, le priorità del 2016”, su “Key4biz” del 5 gennaio 2016) – si deve ad Annalisa Pannerale (Sinistra e Libertà) ed alla relatrice Lorenza Bonaccorsi (Pd), ed ovviamente alla maggioranza di governo che l’ha approvato, nell’iter della legge di riforma Rai.

Cosa sia una “consultazione pubblica” non è descritto in nessun testo normativo, e quindi viene lasciata ampia discrezionalità interpretativa e procedurale al Mise.

C’è però un elemento interessante, che è sfuggito ai più, anzi che ci sembra non sia stato colto da nessun osservatore, ovvero quel che è previsto al comma 165 ed al comma 166 della Legge di Stabilità (questa sì già pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, il 30 dicembre 2015). In particolare, si presti attenzione al punto c. del comma 165:

“165. Le maggiori entrate derivanti dalle procedure di assegnazione dei diritti d’uso delle frequenze in banda 3.6-3.8 GHz, secondo quanto previsto dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, sono versate all’entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnate allo stato di previsione del Ministero dello sviluppo economico per il perseguimento delle seguenti finalità:

a) promuovere la digitalizzazione dei contenuti editoriali e incentivare, per gli anni 2016 e 2017, nelle zone di consegna dei prodotti postali a giorni alterni, abbonamenti ai quotidiani in forma digitale;

b) individuare idonee modalità di ristoro di eventuali spese connesse al cambio di tecnologia (refarming) sostenute dagli attuali assegnatari della suddetta banda;

c) realizzare una consultazione pubblica sugli obblighi del servizio pubblico, radiofonico, televisivo e multimediale, in vista dell’affidamento della concessione del medesimo servizio;

d) compiere interventi di infrastrutturazione di reti di banda ultra larga per la connessione degli edifici scolastici e incentivare gli istituti scolastici che attivano il servizio di connettività su reti a banda ultraveloci”.

 

Allo stato attuale, non ci risulta che siano disponibili stime attendibili sulle “maggiori entrate” che potranno derivare dalle procedure di assegnazione delle frequenze in banda 3.6-3.8 Ghz (questione che “Key4biz” ha affrontato in varie occasioni), dato che la questione è ancora “in mente dei” ovvero affidata alle valutazioni e decisioni giustappunto dell’Agcom, ma si ha ragione di ritenere che non si tratti di pochi spiccioli, anche soltanto considerando le altre destinazioni identificate dalla legge finanziaria, ovvero le altre finalità previste (ai punti “a.”, “b.” e “d.”).

In sostanza, si può prevedere che – nelle intenzioni del legislatore – non si tratti di una consultazione di carattere minore, bensì di una procedura di conoscenza che dovrà essere strutturata assai: e quindi dotata di risorse adeguate.

Forse qualcuno ha guardato al “modello Bbc”, ovvero all’articolazione e ricchezza delle procedure messe in atto nel Regno Unito per ridefinire di volta in volta la “mission” del “public broadcaster service”?

Magari fosse!

Si segnala anche quel che prevede il comma 166, correlato al 165:

166. Con decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, da adottare entro i trenta giorni successivi all’incasso delle entrate di cui al comma 165, sono determinate le effettive maggiori entrate rispetto a quelle previste nei saldi di finanza pubblica nonché la ripartizione di tali risorse tra le finalità indicate al medesimo comma. Con uno o più successivi decreti del Ministro dello sviluppo economico sono individuate le modalità operative e le procedure per l’attuazione delle suddette finalità. Il Ministro dell’economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio nello stato di previsione del bilancio del Ministero dello sviluppo economico”.
Su queste colonne, abbiamo sollecitato il Sottosegretario Mise alle Comunicazioni Antonello Giacomelli, che pure la mitica “consultazione” nazionale anzi “popolare” (e quindi “nazional-popolare”?!) l’aveva annunciata con convinzione nel giugno del 2014, poi costretto ad un dietro-front su indicazione di Matteo Renzi, il quale ha evidentemente ritenuto che si dovesse accelerare la gestazione normativa. La consultazione originaria è svanita nel nulla, ma ora si mette in moto una consultazione (che potrebbe essere… che ci auguriamo sia…) seria, approfondita, tosta.

Esiste un qualche modello di riferimento in Italia?!

Esiste.

Ne possiamo identificare almeno due, ben recenti, su tematiche ben lontane tra loro: la riforma della scuola e la riforma della cosiddetta “esecuzione penale”.

Gli universi di riferimento direttamente interessati hanno dimensioni completamente differenti, trattandosi della popolazione scolastica (circa 7,3 milioni di studenti, tra primarie e secondarie) e della popolazione detenuta e comunque in qualche modo costretta a limitazioni della propria libertà (circa 100mila persone)…

La consultazione avviata dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca correlata all’iter della legge cosiddetta della “Buona Scuola” è stata oggettivamente una operazione comunicazionale/democratica “di massa”, come emerge dai numeri di consuntivo che l’hanno caratterizzata: 207mila partecipanti online; 1,3 milioni di accessi al sito web dedicato; circa 200mila partecipanti in 2.043 dibattiti (strutturati in 16 “stanze”, che hanno accolto 5mila proposte, prodotto 20mila risposte, registrato 1,8 milioni di voti); 1,5 milioni di persone coinvolte dalle strutture periferiche del Miur (gli Uffici Scolastici Regionali)… E, ancora, 45mila commenti rapidi (senza autenticazione) e 6mila email. Numeri impressionanti. Al questionario proposto sul sito hanno risposto ben 130mila partecipanti.

La Consultazione promossa dal Miur è durata poco: 2 mesi, essendo stata aperta dal 15 settembre al 15 novembre 2014, sulla base di un “patto di partecipazione”. Ha prodotto ben 115 “position paper” e 20 documenti degli Uffici Scolastici Regionali, i risultati sono stati presentati durante un evento organizzato presso la sede del Miur nel dicembre del 2014. Nelle slide di presentazione dei risultati, è stata usata la metafora di “un dibattito grande quanto il Paese”.

La consultazione sulla “Buona Scuola” si vanta anche di essere stata “la più grande” mai realizzata in Europa. Va comunque registrato che in rete, si riscontrano molte perplessità e molte contestazioni, anche rispetto alle metodologie utilizzate per la consultazione.

La valutazione dei meccanismi di retroazione (ovvero quanto è stata efficace la consultazione, nei processi di feedback rispetto alle decisioni assunte dal Governo e dal Legislatore?!) fuoriesce dal perimetro di nostro interesse in questa sede: qui ci interessa soltanto indicare due possibili modelli di riferimento adottati dal Governo Renzi.

Torneremo sulla questione, anche in relazione ai costi, per la collettività, di queste forme di consultazione.

Basti osservare, in materia di budget, che la consultazione “La Buona Scuola” promossa dal Miur ha generato un suo portale autonomo (clicca qui per l’homepage), ricco di infografiche, mentre gli “Stati Generali” del Ministero della Giustizia si son dovuti accontentare di una sezione del sito del dicastero stesso (clicca qui per accedere alla sezione).

L’operazione della consultazione “La Buona Scuola” rientra certamente anche in un preciso progetto di comunicazione pubblica, nell’economia dell’iniziativa istituzionale “Passodopopasso. Mille giorni per cambiare l’Italia”. Il portale de “La Buona Scuola” è stato realizzato in collaborazione con Cineca. Per comprendere la portata dell’operazione, si sfogli il dossier governativo che sintetizza i risultati (clicca qui per il documento “La Buona Scuola – Risultati della consultazione pubblica – 15 dicembre 2014”).

L’alternativa “minimalista”?! Il Ministero della Giustizia ha in effetti intrapreso una procedura meno “grandiosa” e certamente più mirata, senza dubbio meno onerosa per le finanze pubbliche, attraverso “Gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale”, avviati nel maggio del 2015.

Come ha sostenuto il Ministro Andrea Orlando, “La nostra ambiziosa scommessa è che attraverso gli Stati Generali su questi temi si apra un dibattito che coinvolga l’opinione pubblica e la società italiana nel suo complesso, dal mondo dell’economia, a quello della produzione artistica, culturale, professionale (…). Sei mesi di ampio e approfondito confronto che dovrà portare concretamente a definire un nuovo modello di esecuzione penale e una migliore fisionomia del carcere, più dignitosa per chi vi lavora e per chi vi è ristretto. Gli Stati Generali devono diventare l’occasione per mettere al centro del dibattito pubblico questo tema e le sue implicazioni, sia sul piano della sicurezza collettiva sia su quello della possibilità per chi ha sbagliato di reinserirsi positivamente nel contesto sociale, non commettendo nuovi reati”.

I lavori sono durati 6 mesi, sono stati strutturati attraverso 18 “tavoli di lavoro”, ai quali hanno partecipato circa 200 esperti, operatori del settore, accademici, associazioni del volontariato, esponenti della società civile… Per la prima volta, una serie di “linguaggi” specialistici e settoriali sono stati “confusi”, in una feconda interazione culturale.

Gli “Stati Generali” hanno concluso i propri lavori, e proprio questa mattina s’è tenuto a Roma un convegno, presso l’Università Roma 3, in occasione della presentazione della III edizione del master in “Diritto penitenziario e Costituzione”, che si è posta come occasione di primo “bilancio” dell’esperienza consultiva.

I documenti conclusivi dei 18 tavoli verranno messi a disposizione della comunità professionale e della collettività tutta nei prossimi giorni, e si potrà disporre di una inedita quantità di elaborazioni. Tra i partecipanti al dibattito Francesco Cascini, Capo Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, e Massimo De Pascalis, Vice Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, con relazioni finali di Glauco Giostra e Mauro Palma, rispettivamente Coordinatore del Comitato di esperti degli Stati Generali il primo e Responsabile del “Tavolo 9” degli Stati Generali (Istruzione, Cultura, Sport) il secondo.

Sono emerse anticipazioni stimolanti, in particolare in relazione alla necessità di ridefinire il sistema semantico, l’architettura simbolica, il linguaggio stesso e quindi l’immaginario tutto della dimensione carceraria. Centrale appare anche la tematica dell’uso delle nuove tecnologie in carcere, avviata grazie ad una recente decisione assunta da Santi Consolo, Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, che ha introdotto l’utilizzazione di internet in carcere, per i detenuti (ovviamente con una serie di vincoli).

Si tratta di tematiche sulle quali torneremo presto su queste colonne, ma ci piace qui osservare come emerga su tutto la assoluta centralità della dimensione “culturale” del problema, evidenziata anche nell’intervento di Marco Panizza, Rettore di Roma Tre.

La consultazione promossa dal Ministero della Giustizia ha coinvolto soltanto in modo modesto il target primario, ovvero la popolazione carceraria, mentre crediamo che un bel questionario strutturato avrebbe potuto fornire un valore aggiunto cognitivo prezioso, così come anche un sondaggio sull’intera popolazione nazionale, per la miglior comprensione dell’immaginario collettivo dei più diretti interessati su questa delicata tematica.

Si tratta di due modelli diversi di “consultazione”: il primo di approccio “demoscopico” ovvero quali-quantitativo, il secondo di approccio più tecnico-qualitativo. Ognuno dei due approcci ha costi e benefici: l’ideale sarebbe una integrazione tra le due metodologie.

Si ricordi che le procedure di consultazione elettroniche sono utilizzate da molti anni nel mondo anglosassone: si tratta di tecniche di indagine che consentono di ampliare la base informativa sulla quale assumere decisioni pubbliche.

Se Silvio Berlusconi amava tanto i sondaggi demoscopici (che certo non disdegna nemmeno Matteo Renzi), la consultazione popolare è uno strumento forse più raffinato. Se ben sviluppate, le consultazioni affinano il “policy making” e divengono strumento di coinvolgimento dei portatori d’interesse, in una dinamica di comunicazione bidirezionale tra amministrazione pubblica/rappresentanti istituzionali e cittadinanza. È la stessa Ocse (Organizzazione per lo Sviluppo Economico e la Cooperazione Internazionale) a ritenere opportuno lo strumento, perché la consultazione costituisce il punto di passaggio dalla mera informazione “top-down” alla partecipazione attiva “dal basso”.

La questione è delicata e richiede opportuni approfondimenti, perché è sempre latente il rischio che la consultazione venga strumentalizzata, ovvero, come ha scritto saggiamente Alessandra Valastro (professore associato di Istituzioni Pubbliche all’Università di Perugia), divenga uno “strumento di legittimazione ex post della decisione, anziché di elaborazione e valutazione della stessa”, ovvero degeneri “in un tentativo di creare campagne di comunicazione unidirezionali che mirano ad informare e persuadere i destinatari della bontà del progetto, e dunque a ridurre la conflittualità attraverso un consenso generato più da strumenti di tipo propagandistico che di dialogo critico” (clicca qui per leggere il saggio di Valastro, ancora attuale, sul sito web dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti).

Potenza del digitale, controversa ed ambigua: un’operazione di stimolazione democratica del processo decisionale può rivelarsi un’abile strumento di marketing del consenso.

Nell’era della “democrazia elettronica”, è sempre latente il rischio che un sedicente bel “cantiere democratico” possa rivelarsi un ignobile “megafono del potere”.

Come diceva saggiamente Renzo Arbore, “meditate gente, meditate…”.

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