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La direttiva europea sulla conservazione dei dati è incompatibile con il requisito, sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, secondo cui qualsiasi limitazione dell’esercizio di un diritto fondamentale deve essere prevista dalla legge.
È questa la conclusione dell’avvocato generale della Corte di giustizia Ue Cruz Villalón, secondo cui la direttiva “costituisce un’ingerenza grave nel diritto fondamentale dei cittadini al rispetto della vita privata, istituendo un obbligo per i fornitori di servizi di comunicazioni telefoniche o elettroniche di raccogliere e conservare i dati sul traffico e sull’ubicazione di tali comunicazioni”.
Tali dati non sono conservati dalle pubbliche autorità, né sono posti sotto il loro controllo diretto. Inoltre, la direttiva non prevede che i dati debbano essere conservati nel territorio di uno Stato membro. Essi possono di conseguenza essere accumulati in luoghi imprecisati del ciberspazio.
L’avvocato generale, riferendosi nello specifico a due procedimenti pregiudiziali iniziati, rispettivamente, dalla High Court of Ireland (Irlanda) e dal Verfassungsgerichtshof (Corte costituzionale, Austria), ha quindi sottolineato che l’utilizzo dei dati può consentire “una mappatura tanto fedele quanto esaustiva di una parte importante dei comportamenti di una persona rientranti strettamente nell’ambito della sua vita privata, se non un ritratto completo e preciso della sua identità privata”. Esiste, pertanto, “un rischio elevato che i dati conservati siano utilizzati a fini illeciti, potenzialmente lesivi della vita privata, oppure, più in generale, fraudolenti o malevoli”.
In considerazione di tale “grave ingerenza” la direttiva avrebbe dovuto, anzitutto, “stabilire i principi fondamentali che dovevano regolare la definizione delle garanzie minime inquadranti l’accesso ai dati raccolti e conservati e l’utilizzo di questi”.
La direttiva invece rimanda agli Stati membri il compito di definire e istituire tali garanzie e, così facendo, non rispetta l’obbligo, previsto dalla Carta, secondo cui “qualsiasi limitazione dell’esercizio di un diritto fondamentale deve essere prevista dalla legge”. Tale requisito, prosegue l’avvocato, “va oltre un criterio puramente formale. Il legislatore dell’Unione, infatti, nell’adottare un atto che, come nel caso della direttiva sulla conservazione dei dati , impone obblighi che costituiscono gravi ingerenze nei diritti fondamentali dei cittadini dell’Unione, deve assumersi la propria parte di responsabilità stabilendo quantomeno i principi che devono presiedere alla definizione, alla fissazione, all’applicazione e al controllo del rispetto di tali garanzie”.
È proprio tale inquadramento che permette di valutare la portata che comporta in concreto tale ingerenza nel diritto fondamentale e che può pertanto rendere quest’ultima tollerabile o meno dal punto di vista costituzionale.
Ritenendo che la direttiva persegua comunque “un fine ultimo perfettamente legittimo, ossia garantire la disponibilità dei dati raccolti e conservati al fine di accertare, indagare e perseguire reati gravi”, Villalón ha proposto di sospendere gli effetti della constatazione di invalidità per consentire al legislatore dell’Unione di adottare, entro un lasso di tempo ragionevole, i provvedimenti necessari per porre rimedio all’invalidità constatata.
Ricordiamo la Corte di giustizia comincia adesso a deliberare in questa causa e che le conclusioni dell’avvocato generale non vincolano i giudici. Il compito dell’avvocato generale consiste nel proporre alla Corte, in piena indipendenza, una soluzione giuridica nella causa per la quale è stato designato. (A.T.)