#PAdigitale è una rubrica settimanale a cura di Paolo Colli Franzone promossa da Key4biz e NetSquare – Osservatorio Netics.
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Italia
E alla fine, abbiamo il nuovo Governo.
Oggi (mentre scrivo sono le 20 di domenica 23), ancora non sappiamo come saranno distribuite le deleghe all’interno di un gabinetto ridotto a soli 16 ministri e chi si occuperà di politiche digitali. Continua a girare la voce (salvo clamorose smentite dell’ultima ora) che dà per scontato un commitment diretto del Presidente del Consiglio e la nomina di un sottosegretario ad-hoc. Staremo a vedere.
Probabilmente, mentre leggete queste righe lo sapremo già.
Proviamo a dare per scontato che sul piano attuativo si vada in totale continuità con quanto iniziato dal gabinetto Letta; nessun terremoto all’AgID, la conferma più o meno integrale dei membri dell’unità di missione di Largo Chigi. Tutti sanno cosa devono fare, lo statuto dell’AgID finalmente c’è, tra pochi giorni sarà approvato anche il bilancio. Buon lavoro a tutti, quindi.
Proviamo, invece, a mettere in fila quelle che dovrebbero essere le priorità su un piano squisitamente politico, per quanto riguarda il digitale.
Da dove si parte?
Dalle politiche digitali, per l’appunto. Ossia dal disegno di un percorso di “digital switch over” del Paese. Con un accorgimento, però: facciamo che questo switch-over non finisca per essere il canale commerciale attraverso il quale vengano “sbolognate” quantità industriali di “tecnologia a prescindere”. Traduzione in italiano: “che lo switch-over sia governato da economisti e non da informatici”.
Si parta dalla generazione di domanda consapevole, piuttosto che da un “push” indiscriminato.
Si parta dall’ingaggio di centinaia, migliaia di “Digital Champions” territoriali. Evangelisti dell’innovazione tecnologica, se vogliamo definirli così.
Persone capaci di spiegare non tanto la grande bellezza di un codice sorgente Java ben scritto o i tecnicismi dell’XML, quanto piuttosto la grande opportunità nascosta dietro all’e-Commerce, allo sviluppo di digital marketplaces di quartiere, alle soluzioni per la continuità assistenziale in sanità, al digital making, e così via.
Persone capaci di convincere l’alberghetto 3 stelle o il gommista dietro l’angolo, l’aziendina manifatturiera con 5 dipendenti. Convincerle che “digitale conviene“.
Convincerle con fogli elettronici di simulazione costi-ricavi, di analisi del ritorno dell’investimento.
L’obiettivo minimo dovrebbe essere quello di portare il mercato italiano del digitale a pesare tra i 6,5 e i 7 punti di PIL entro il 2018. Tradotto in valori assoluti, significa generare 27 miliardi di “nuovo mercato”.
Tra l’altro, 27 miliardi “freschi” significano anche quasi 6 miliardi di gettito IVA; ma significano anche almeno 200 mila posti di lavoro.
La scadenza del 2018 serve per tentare di avere qualche chance rispetto al raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda Digitale Europea fissati per il 2020. Coincidono con la scadenza naturale della legislatura, ma questo è un dettaglio.
Ma torniamo agli Evangelist. Chi li paga?
Proviamo a dare una risposta: li paga un tesoretto creato attraverso un mix pubblico-privato. Magari a partire dal mitico “PON Digitale” finanziato con fondi strutturali e cofinanziato dall’industria ICT.
1.000 Evangelist per quattro anni possono costare non più di 300 milioni di Euro (se alle loro retribuzioni aggiungiamo le spese di trasferta, trattandosi di persone destinate a macinare chilometri come ogni bravo evangelista che si rispetti). Spiccioletti, qualora paragonati al potenziale di mercato che potrebbero innescare. Magari potremmo immaginare una parte di retribuzione commisurata al risultato raggiunto, giusto per evitare il tipico “effetto 4C” (Chiacchiere, Carta, Cattedrali nel deserto, Convegni) caratteristico di buona parte dei progetti europei nella loro declinazione italiana.
Altra domanda: ma questi Evangelist dovranno anche occuparsi di pubblica amministrazione?
Risposta: assolutamente sì.
Ma qui dobbiamo necessariamente supplicare il neo sottosegretario alle politiche digitali o la figura a esso equivalente, pregandolo di mettere mano – prima – a quello che potremmo definire “il Grande Nodo Irrisolto”: la piena (e severa, se dovesse servire) attuazione dell’art. 117 della Costituzione.
La competenza esclusiva (ripeto: “esclusiva”) dello Stato sulle materie che riguardano “il coordinamento informativo, statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale”.
Il che non significa togliere o anche solo mettere in discussione l’autonomia decisionale delle amministrazioni regionali e locali rispetto alle loro scelte in termini di soluzioni e relativi fornitori. Significa solamente rendere cogente (a pena di commissariamento) l’adozione di soluzioni completamente interoperabili e di flussi informativi assolutamente obbligatori.
Spetterà poi alla sensibilità (e al “portafoglio”) delle singole amministrazioni decidere se continuare a reinventare tutti quanti ogni giorno la medesima acqua calda (decine di sistemi informativi per la gestione del bollo auto, dozzine di fascicoli sanitari elettronici, centinaia di software per la contabilità, e potrei andare avanti all’infinito) oppure provare a immaginare un circuito virtuoso di progettualità condivisa (il “riuso ex-ante”, l’unico che può davvero funzionare) e di razionalizzazione delle risorse.
Il Cloud, lo potremmo dare per scontato. Salvo che non si voglia continuare a gestire migliaia di data center pubblici, molti dei quali pomposamente appellati così ma corrispondenti – nella tragica realtà quotidiana – ad armadi di server collocati nella stanza delle scope di municipi, scuole, tribunali, uffici territoriali della PA centrale.
Ma qui siamo tornati nella quotidianità, nell’operatività affidata all’AgID.
Partiamo da qui: dagli Evangelist e dalla governance della digitalizzazione della PA.
Aggiungiamoci una buona dose di attività di formazione/informazione, finalizzata a creare competenze e consapevolezze digitali a tutti i livelli. Trovando, magari, il coraggio di utilizzare anche le “armi convenzionali” in maniera non convenzionale. Ritengo inadeguata (al limite del ridicolo) la figura più volte evocata del “Maestro Manzi del digitale”: si trovi il coraggio di mettere il digitale dentro le fiction TV, se vogliamo digitalizzare il gommista dietro l’angolo e convincere la Signora Maria a utilizzare il fascicolo sanitario elettronico.
In alternativa, possiamo continuare a raccontarcela tra di noi.