di Alessandra Morelli*
Il terrorismo, qualunque nome abbia, Al Shabab, Boko Haram, Qaida o Isis, continua ad essere la causa primaria di morte di molti civili innocenti.
La mia storia è profondamente radicata in questo difficile contesto operativo, in cui in qualità di ufficiale UN e UNHCR mi sono sempre confrontata con situazioni di grave pericolo e minaccia.
Adesso torniamo a quel 13 febbraio del 2014.
Ricordo che era una calda giornata dal cielo azzurro come solitamente è a Mogadiscio.
Quel giorno con i membri del mio staff avevo deciso di andare a verificare il completamento dei lavori di messa in sicurezza del compound UN situato in città.
Era il compound che aveva subito un brutale attacco da Al Shabab il 12 giugno dell’anno prima causando la morte di 5 colleghi delle UN, tra i quali c’era una mia amica, Rita, una donna keniota madre di una bella bimba di 5 anni.
Quel giorno mi resi conto che lavoravo in uno dei luoghi più pericolosi al mondo e che per puro caso non mi trovavo là perché ero stata invitata a Roma a partecipare alla “Giornata Mondiale dei Rifugiati”.
Ma ritorniamo alla mia storia: ero giunta in salvo al compound con il mio veicolo blindato e con il mio team di 22 uomini di scorta che mi segue in ogni spostamento a Mogadiscio e in altre parti della Somalia.
Dopo aver ispezionato per circa 4 ore la base per verificare che tutto fosse in linea con le procedure di sicurezza, ci siamo avviati verso l’aeroporto dove le UN avevano stabilito la nostra base temporanea. Giunti a una rotatoria giusto a 35 metri dall’entrata principale dell’Unione Africana Soldati, all’improvviso una macchina carica di esplosivo si è diretta dritta contro il nostro convoglio ed è esplosa addosso alla mia macchina.
Io ero seduta nel lato destro del sedile posteriore esattamente dove sono avvenute la collisione e l’esplosione. Accanto a me era seduta Gina, e alla guida c’era Hussein il mio autista, che ci salvato la vita con la sua calma e freddezza, e poi c’era Arash la mia guardia di sicurezza che rapidamente comunicò via radio quanto era accaduto.
L’esplosione era surreale sebbene io non fossi nuova ai suoni della guerra….
La deflagrazione ha ucciso dei passanti e il suono è stato così forte e profondo da attraversare il mio corpo come una freccia.
Il fumo e l’odore della morte intorno si era infiltrato dentro la macchina e iniziava a intossicarci. Ho realizzato subito che eravamo stati attaccati da un veicolo kamikaze (Suicide Vehicle Born Improvised Explosive Devise-SVBIED).
Ciò che avevo letto e imparato sulle tattiche terroristiche stava accadendo a me….
La nostra macchina si è fermata e non riusciva a ripartire, nonostante diversi tentativi di rimetterla in moto eravamo bloccati.
A quel punto la scorta ha iniziato a sparare intorno al nostro veicolo per impedire che qualcuno ci uccidesse, tattica che Al Shabab utilizza contro tutti i nemici, ovvero personale UN, uomini d’affari, politici.
Hussein, l’autista, con la sua determinazione è riuscito a far ripartire la macchina e siamo arrivati all’Amison Hospital.
I primi 3 giorni dopo l’incidente mi sembrava di stare bene anche perché ero molto presa da tutte le persone che con grande affetto chiedevano di me, ed ero anche impegnata in riunioni varie con i miei colleghi e con i superiori delle UN nell’analizzare l’accaduto.
Una notte mi sono resa conto che un semplice rumore mi faceva trasalire, sudavo freddo e i miei muscoli erano tesi. Camminavo come un robot, ero impaziente, emotiva e agitata, incapace di stare seduta ferma o di ascoltare. Il respiro era affannato e avevo sentimenti di rabbia. Mi resi conto che stavo manifestando degli effetti post traumatici e che dovevo trovare il modo per elaborare ciò che era accaduto ma non sapevo con chi parlarne.
Mi rendevo conto di non avere il controllo e che dato il mio ruolo di responsabile della mission, non potevo far pagare agli altri il prezzo di questa situazione.
Una cara amica, Alessandra, mi parlò della terapia EMDR presentandomela come un approccio innovativo per la cura dei traumi. Così ho contatto la dott.ssa Bruna Maccarrone e ho iniziato questo affascinante viaggio verso la libertà, tramite l’elaborazione e la desensibilizzazione dell’incidente.
Dopo un mese di terapia avevo nuovamente la gestione e il controllo delle mie emozioni. Il mio team mi attendeva.
Appena giunta a Mogadiscio chiesi di andare nel luogo in cui era avvenuto l’attacco, nella rotatoria della morte, come l’avevo definita precedentemente, per testarmi e confrontarmi con ciò che era accaduto due mesi prima.
Siamo andati e mi sono sentita calma, centrata, forte e di nuovo in sella. Lo percepivo più come un ricordo e non come una roccia che ostruiva e soffocava la mia mente, i miei sentimenti, le mie emozioni.
La grande prova è venuta successivamente…..
Era il giorno di Natale 2014, quando alle 13,30 ora locale, durante il pranzo natalizio, un gruppo di 7 granatieri suicidasi infiltrati nell’aeroporto dove sono situatati il compound delle UN e quello dell’Unione Africana, sferrano un attacco articolato che ha portato all’uccisione e al ferimento di diversi soldati dell’Unione Africana, e che ha tenuto noi delle UN sotto assedio per circa 20 ore. Quel giorno e la settimana successiva io sono stata l’Ufficiale in carica designato, ovvero incaricata in nome del rappresentante della Segreteria Generale, di gestire ogni questione e decisione in materia di sicurezza dello Staff, quindi gestire la crisi e assicurare che ogni decisione fosse appropriata a garantire la sicurezza di tutti. Quella notte eravamo oltre 200 membri dello staff. Mi sono sentita calma centrate e ho dato il meglio di me prendendo le giuste decisioni.
Il giorno seguente tutti i colleghi sono venuti a ringraziarmi e a congratularsi del fatto che avevo gestito la crisi con grande calma e profonda attenzione al loro benessere. In quell’esatto momento mi sono sentita libera e ho capito tramite questa concreta esperienza, che con la terapia EMDR che avevo seguito, è possibile recuperare e resettare la mente.
Oggi, attraverso il viaggio di elaborazione fatto con l’EMDR, io mi sento in realtà orgogliosa di essere chi sono, e quel ricordo non è più un treno che mi arriva addosso, ma un treno che mi passa accanto senza disturbare il mio viaggio nella vita.
In un certo senso abbiamo sconfitto il terrorismo.
*Il profilo
Dal 2013, Alessandra Morelli è Delegata per la Somalia dell’UNHCR-Alto Commissariato dell’ONU per i rifugiati. Nel febbraio del 2014, a Mogadiscio, insieme ai suoi colleghi, è stata bersaglio di un grave attentato. Ciononostante decide di rimanere tra le vittime del terrorismo, catastrofi umanitarie, guerre e bande di ribelli. La sua esperienza professionale matura principalmente in zone di conflitto ad alto rischio e di emergenza, quali Croazia, Bosnia, Ruanda, Albania, Sri Lanka, Sahara occidentale, Kosovo, Afghanistan, Indonesia, Georgia, Yemen e Birmania.
Focus dei suoi interventi sono i negoziati per la creazione di corridoi umanitari, l’applicazione del principio di “non respingimento” e l’affermazione del concetto di “resilienza”. La profonda cultura internazionale, il grande calore umano e la carica di vitalità, che porta con sé sono di grande rilevanza in un lavoro di speranza per il ritorno a una vita normale per tanti sfollati e rifugiati, destabilizzati anche dalla minaccia del gruppo terroristico islamista, Al Shabaab. Solo in Kenya, più di 100.000 rifugiati somali hanno trovato e trovano un sostegno nei “progetti di speranza” da lei promossi e che abbracciano diverse urgenze, tra cui la violenza sulle donne, la carestia, il focolaio riacceso della poliomielite e l’ebola. E’ insignita del “Field Award 2014”.