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Digital Crime. Quando il sexting costituisce reato

di Paolo Galdieri, Avvocato, Docente di Informatica giuridica, LUISS di Roma |

Secondo Telefono Azzurro ed Eurispes il 6,7% dei giovani italiani ha inviato sms o video a sfondo sessuale con il proprio cellulare, mentre il 10,2% ne ha ricevuto almeno uno.

Nel volgere di pochi anni all’interno del web si è sviluppata una nuova minaccia, soprattutto per i minorenni, determinata dal diffondersi del cd. sexting, ovvero la creazione di video e immagini sessualmente espliciti, normalmente finalizzati alla condivisione con il partner, e quindi, trasmessi allo stesso.

La rubrica #DigitalCrime, a cura di Paolo Galdieri, Avvocato e Docente di Informatica giuridica, alla LUISS di Roma, si occupa del cybercrime dal punto di vista normativo e legale.
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Secondo Telefono Azzurro ed Eurispes il 6,7% dei giovani italiani ha inviato sms o video a sfondo sessuale con il proprio cellulare, mentre il 10,2% ne ha ricevuto almeno uno (Indagine conoscitiva sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, 2013).

Tale pratica, di per sé lecita, in quanto riconducibile alla sfera intima della coppia, sta diventando con sempre maggior frequenza la porta d’accesso per reati di varia natura, quali la produzione e divulgazione di immagini pedopornografiche, allorquando sono coinvolti i minori, l’ estorsione, nel caso in cui il soggetto che ha videoripreso il partner chieda denaro al fine di non divulgare il video stesso, lo stalking, nell’ipotesi in cui all’interno di una serie di condotte moleste si inserisca anche quella di paventare una diffusione del video o dell’immagine ( Cfr. Cass., Sez. VI, sent. n. 32404/2010, ove si considera come “integrante l’elemento materiale del delitto di atti persecutori, ad es. il reiterato invio alla persona offesa di sms o di messaggi di posta elettronica o postati sui cd. social networks, nonché la divulgazione su questi ultimi di filmati ritraenti rapporti sessuali intrattenuti dall’autore del reato con la medesima”), nonché il trattamento illecito del dato.

Alcuni problemi interpretativi pone, invero, il primo comma dell’art. 600-ter c.p. (pornografia minorile)- riferito specificamente alla condotta di chi utilizza minori degli anni diciotto al fine di realizzare esibizioni pornografiche o di produrre materiale pornografico- in quanto non è chiaro se possa trovare applicazione nelle ipotesi in cui il materiale creato all’interno della coppia venga poi divulgato senza il consenso del minore .

La norma in questione non sembra, in realtà, agevolmente applicabile al caso di specie, essendo stata pensata per combattere lo sfruttamento pornografico dei minori, volto ad alimentare, soprattutto, il circuito della pedofilia. Se, infatti, la produzione di video ed immagini finalizzata allo sfruttamento sessuale ha come momento critico, e quindi, tale da dover essere sanzionato, quello della strumentalizzazione del minorenne attraverso le riprese dell’atto sessuale, nel caso del sexting l’offensività non è caratterizzata tanto dalla produzione del materiale sessualmente esplicito, realizzato sempre attraverso il consenso, quanto dalla sua diffusione, mirante proprio a mortificare il soggetto, rendendone pubblica la sua intimità all’interno della cerchia delle proprie relazioni.

Per tali ragioni sembrerebbe condivisibile, ad un primo sguardo, la sentenza emessa dal Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Firenze (10 febbraio 2015, Gip Silvia Cipriani), con la quale è stato assolto dalla contestazione di cui al primo comma dell’art. 600-ter c.p. “perché il fatto non sussiste”, e condannato semplicemente per il reato di divulgazione, l’imputato accusato di aver postato su Facebook, a dichiarato scopo di vendetta per la rottura della relazione sentimentale,  materiale sessualmente esplicito, ritraente una diciassettenne che all’epoca aveva prestato il proprio consenso alle riprese, realizzandone essa stessa la parte iniziale.

A tale decisione il Giudicante giunge sulla base di due argomenti: 1 – il consenso prestato dalla ragazza alle riprese varrebbe ad escludere la presenza di manipolazioni o situazioni di soggezione, e, dunque, quella forma di sfruttamento richiesta dalla norma; 2 – il consenso del minore ultraquattordicenne, per analogia con quanto previsto in merito alla sua libertà di compiere atti sessuali, ex art. 609-quater c.p., finirebbe con rendere legittima la condotta.

Per quanto concerne il primo argomento, tuttavia, si osserva come sia la Convenzione di Lanzarote, che la Direttiva 2011/93/UE, alle quali dovrebbe ispirarsi l’attuale disciplina in tema di ponografia minorile, affermano che la punizione del reato di produzione di materiale pedopornografico non implica di per sé né lo sfruttamento, né l’approfittamento.

In relazione alla seconda questione, si osserva come il legislatore ha deciso di non attribuire rilevanza al consenso del minore ultraquattordicenne nel reato di pedopornografia, e ciò sebbene la Convenzione di Lanzarote avesse esplicitamente offerto tale possibilità.

Sulla base di tali semplici considerazioni è da ritenere allora che non sia condivisibile la scelta del Tribunale sotto il profilo strettamente giuridico, proprio alla luce della formulazione della norma, anche a seguito delle modifiche apportate dalle leggi 38/2006 e 172/2012. Ciò detto, tuttavia, il Giudicante coglie nel segno quando osserva che la fattispecie prevista dal 600-ter primo comma sia sensibilmente differente da quella in esame.

Ne consegue che, di fronte ad un evidente vuoto normativo, sia necessario un intervento del legislatore idoneo a prendere atto di una nuova tipologia di abuso pornografico caratterizzata non tanto dalla strumentalizzazione del minore realizzata attraverso la produzione del materiale, quanto dalla divulgazione dello stesso, mediante la quale si mortifica la sua personalità.

Considerato che tali forme di abuso sono frequenti anche nelle relazioni tra adulti è auspicabile pure rispetto a tali rapporti la previsione di una norma espressamente riferita alla diffusione non autorizzata di materiale sessualmente esplicito.

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