Privacy come bene di lusso? Difendersi diventa un business, ma per proteggersi basta poco

di Alessandra Talarico |

Luigi Montuori (Garante Privacy): ‘Cresce la consapevolezza che i dati personali sono un bene da tutelare’ ma al di la degli strumenti a pagamento, ci sono anche comportamenti del tutto gratuiti ‘come l’attivazione in ‘modalità privata’ del browser’.

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In un mondo sempre più digitale e che vive e prolifera grazie alle informazioni che ciascuno di noi immette in rete, la privacy è ormai considerata un ‘bene di lusso’. Tutti noi, consapevolmente o meno, ‘sacrifichiamo’ la riservatezza dei nostri dati sull’altare della gratuità di molti dei servizi di cui usufruiamo ogni giorno in rete (dalle email ai servizi di informazione, passando per i social network), complice anche il crescente utilizzo di dispositivi mobili, appendici cui nessuno sembra più disposto a rinunciare.

Come spiegava qualche giorno fa sul New York Times Julia Angwin: “quando usiamo GMail, Google esamina quello che scriviamo per poi offrire ai suoi inserzionisti l’opportunità di inviarci pubblicità basate su quanto abbiamo scritto; molti dei siti di news si rivendono i nostri dati prima ancora che la pagina abbia finito di caricarsi e Facebook permette agli inserzionisti di utilizzare gli aggiornamenti del nostro status in pubblicità per i loro prodotti”.

 

E così, molte aziende stanno cominciando a sfruttare la ‘voglia di privacy’ degli utenti con servizi in grado di proteggere le informazioni personali: alcuni sono gratuiti come il motore di ricerca DuckDuckGo (che si distingue con lo slogan “Noi non vi tracciamo”) o i servizi di posta elettronica HushMail e Riseup (per scrivere messaggi criptati e non intercettabili); altri costano, e neanche poco, come il BlackPhone (uno smartphone da quasi 500 euro non ancora arrivato sul mercato che promette di ‘blindare’ le conversazioni rendendole impermeabili a incursioni esterne) o il Boeing Black che, oltre a criptare le chiamate, cancella tutti i dati e rende il cellulare inutilizzabile nel caso in cui qualcuno cerchi di manometterlo.

Servizi e strumenti che però, di fatto, stanno trasformando un nostro sacrosanto diritto (quello alla riservatezza) in una merce, in un qualcosa per cui bisogna essere pronti a pagare. Del resto si dice che ‘quando non paghi per un prodotto, sei tu il prodotto’.

 

Ma la cosiddetta ‘privacy economy’ è un business in crescita sulle spalle delle nostre informazioni personali – quasi un’ammissione implicita che la privacy non è più un nostro diritto ma un privilegio appannaggio di chi avrà abbastanza soldi – o il segno che gli utenti, complice anche l’esplosione del Datagate, stanno più attenti alla tutela dei loro dati personali, stimolando l’offerta di questi strumenti?

Come ha spiegato al nostro giornale Luigi Montuori, Responsabile del dipartimento Comunicazioni e Reti telematiche del Garante Privacy, “…il proliferare di app e dispositivi che proteggono i dati personali è certo il sintomo di come questi siano sempre più percepiti come un proprio bene da tutelare. Si tratta di un segnale, a mio avviso, che l’utente di Internet sia consapevole che è probabilmente impossibile mascherare completamente le attività online”.

Sul versante della disciplina sulla protezione dei dati personali, certo, esistono già strumenti atti a tutelarsi, in primis informativa e consenso ma, ci ha detto ancora Luigi Montuori, “gli utenti hanno capito che è utile anzi necessario adottare ulteriori misure per evitare di essere in balia di potenti soggetti che controllano i nostri comportamenti in rete. In alcuni casi avvalendosi di sistemi che elevano la protezione dei nostri dati e promuovono le politiche no-snooping”.

 

Ultimo strumento in ordine di tempo arrivato sul mercato è Omlet, una piattaforma social gratuita che non memorizza i dati (che si tratti di una foto o di un like) ma li invia direttamente a un servizio cloud scelto dagli utenti.

Sviluppato dal MobiSocial Lab della Stanford School of Engineering, Omlet promette agli utenti la possibilità di controllare le loro informazioni, senza immagazzinarle nei suoi server. Un dettaglio non da poco.

Spiega la Stanford in un comunicato che “…la ‘privacy economy’ si basa sulla premessa che le persone saranno disposte a pagare un prezzo, ancorché modesto per unirsi a un social network che garantisca l’integrità dei dati personali”.

Secondo un recente studio della University of Colorado-Boulder questo prezzo equivale a 5,06 dollari.

 

Al di la degli strumenti specifici a pagamento, comunque, ci sono anche comportamenti utili del tutto gratuiti “come ad esempio la semplice attivazione in ‘modalità privata’ del browser che di solito si trova sotto Preferenze, Strumenti o Impostazioni, che  permette di eliminare i cookies di tracciamento e quindi non permette il tracciamento della navigazione”, ha ricordato ancora Montuori.

 

Come dire, la difesa della privacy non è giunta al capolinea. Basta essere consapevoli dei vantaggi degli strumenti digitali, ma anche dei rischi e prendere le contromisure adeguate senza dare nulla per scontato, soprattutto i nostri dati.

 

 

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