Il cielo sulla Croisette non si tinge d’azzurro. Forse, essendo l’azzurro già il colore della meravigliosa costa che ospita uno dei Festival più importanti del mondo, i giurati devono aver ritenuto che quest’anno il “colore su colore” non fosse particolarmente à la page.
Dunque, niente goliardia all’italiana, nessuno che saltelli sulle rosse poltrone della sala per andare a ritirare “il premio della vita”, nessuna esecuzione a squarciagola del “Po-po-ro-po-po-po” di Seven Nation Army (eletto, nel duemilasei, inno vicario del Bel Paese).
La rubrica EntARTainment, ovvero libere riflessioni sull’economia dei media e della creatività tra nuovi linguaggi, mercati globali e moderne fruizioni. A cura di Bruno Zambardino Docente di Economia del Cinema e dello Spettacolo alla Sapienza e Direttore Osservatorio Media I-Com, in collaborazione con Armando Maria Trotta, autore cinematografico. Per consultare gli articoli precedenti clicca qui.Va be’, le mamme dello Stivale ce lo hanno sempre detto: “l’importante non è vincere, è partecipare, bell’ a mammà!” e noi, da bravi eterni bambini, ce lo dobbiamo ricordare anche oggi, senza lanciare sterili accuse contro i cugini francesi che hanno fatto incetta di premi a casa loro.
Ma come tutti i bambini, anche noi mettiamo il broncio, anche a noi le ingiustizie fanno storcere il naso come al piccolo, nerissimo, Calimero. D’altronde, come tutti i bambini, anche noi non sappiamo smettere di sognare e sogniamo sogni diversi.
Sogniamo vecchi ironici che hanno un grande futuro alle spalle, Re e Regine alle prese con la fantasia più selvaggia, Registi umani che ci parlano della finzione della loro vita e dell’autenticità dei loro dolori, paesi ai margini del mondo tutti da raccontare. E questi sogni non rimangono nei cassetti, questi sogni, grazie a persone altrettanto geniali, diventano film; diventano una parentesi di un paio d’ore che cerca di cambiare il tuo punto di vista, fosse anche per poco.
Insomma, se uno dei nostri film ignorati dalla giuria internazionale di altissimo livello del Festival di Cannes ha già incassato quasi tre milioni di euro in soli quattro giorni di programmazione in Italia ed è stato già venduto in 75 Paesi nel mondo, forse non c’è da lagnarsi troppo.
I premi si vincono e si perdono, si ostentano e spesso ci atterriscono, ma questo mestiere lo si fa per il pubblico, quello che entra al cinema senza scarpe di vernice e senza smoking.
Ma questo è il cinema dei massimi sistemi e poco importa se non riceve alcun riconoscimento, qualcuno potrà dire “è facile fare bei film quando alle spalle si hanno produzioni e distribuzioni così solide!”.
E invece, in Italia, capita di assistere a piccoli miracoli e di imbattercisi quasi per caso, svoltando l’angolo e ritrovandosi una sala che offre al gentile pubblico la visione di un film “amatoriale” ed un dibattito coi giovani registi e attori che lo hanno realizzato.
Parliamo di un film artigianale realizzato con, all’incirca, ottocento euro, frutto dei lavori saltuari e stagionali delle persone che lo hanno messo in piedi e che, nei ritagli di tempo, facevano schioccare qualche ciak per portarsi a casa il ricordo della storia che l’autore aveva immaginato.
Gianluca Catalfamo, sceneggiatore e regista di “Lepre Meccanica” all’inizio non aveva le idee molto chiare e la prima cosa che ci dice in merito al suo film è “io, in realtà, volevo fare un fumetto”. Eh, già! Il ragazzo dal multiforme ingegno, senza il supporto del suo team, forse non ci avrebbe consegnato una piccola perla di cinematografia davvero indipendente e low-low-budget.
Insomma, entriamo in sala e vediamo di che si tratta: quattro scalmanati, una piccola banda della Magliana che parla davvero come la gente che incontri per strada, nei vicoli e nelle borgate della Capitale.
Tutto nasce da un’esecuzione sommaria di un debitore e prosegue con il rapimento di quello che, nella loro mente obnubilata da alcool e droghe, dovrebbe essere “er pelato dei cartelloni”, il candidato Sindaco della città eterna. Tra faide familiari, personaggi atipici e surreali, spaziamo da ambientazioni tarantiniane a caratteri da autentica commedia all’italiana. Un film nuovo che sa rielaborare l’immaginario e la cosmogonia cinematografica degli autori, della troupe e del cast.
Tra mille problemi produttivi (ovviamente legati al vil denaro) abbiamo assistito, per un paio di ore, ad un prodotto davvero notevole se commisurato alle ristrettezze economiche, un prodotto che si affida in massima parte alla qualità della scrittura ed alla interpretazione magistrale di attori non professionisti (uno per tutti, il giovanissimo e talentuoso Gabriele Lepera, aka Andreotti, una specie di incarnazione dell’eterno ritorno, una figura in grado di essere teterrima e comica allo stesso momento) da autori e tecnici che non hanno mai varcato le soglie di alcuna accademia di cinema.
Ecco, questa è la dimostrazione che cercavamo, sappiamo sognare e far sognare anche con poco, se non ci servono i soldi figuriamoci i premi.
In Italia siamo tutti eterni bambini e partendo dai giochi che iniziavano con “facciamo che io sono il poliziotto e tu sei il ladro che scappa…” siamo riusciti a metter su una tradizione cinematografica invidiabile ed invidiata. Che si faccia con i milioni dei registi affermati o con i pochi spiccioli racimolati dai lavori più disparati, le immagini da proiettare sul grande schermo sono cosa nostra; perché il cinema, prima dei lustrini, delle paillette, delle coppe e dei trofei, del denaro e dei papillon, si nutre di sogni ed un popolo che sa rimanere bambino possiede il vantaggio di avere a portata di mano una scorta inesauribile di fantasia.