I giornali prima vendono l’anima ai social e poi li imitano. La decisione del New York Times di appaltare la distribuzione delle proprie notizie a Facebook non lascia spazio ai dubbi: si è avviato lo sfaldamento della forma giornale, che verrà diluita nel flusso delle videate del social network e impaginata secondo i profili che Facebook ricaverà da ognuna delle nostre pagine.
BreakingDigital, rubrica a cura di Michele Mezza (docente di Culture Digitali all’Università Federico II Napoli) – mediasenzamediatori.org. Analisi e approfondimenti sul mondo dei media e del digitale, con particolare attenzione alle nuove tendenze della galassia multimediale e dei social network. Clicca qui per leggere tutti i contributi.Si chiude così formalmente la lunga parentesi apertasi 5 secoli fa con la diffusione della stampa a caratteri mobili e la proliferazione dei modelli di comunicazione basati sulla pagina stampata.
Uno scenario che pare senza alternative proprio ai dirigenti del mitologico quotidiano della Grande Mela, e che lo stesso New York Times sembra voler accelerare.
Non a caso, viene annunciato il ridimensionamento del poderoso sito web del giornale che chiuderà drasticamente nella sua versione pay, che tante speranze aveva fatto nascere nell’editoria d’informazione.
Ma i cervelloni che ancora popolano il grande edificio realizzato da Renzo Piano ora vanno oltre: il New York Times si trasforma in un service provider e lancia un servizio Upshot che georeferenzia le storie per ogni singolo lettore, che si vedrà così proporre informazioni e approfondimenti a partire dalla sua localizzazione. Un’offerta che sicuramente potrà rendere al giornale qualche frequentazione digitale, ma che sicuramente ne sbriciolerà ulteriormente l’identità e la funzione.
Infatti oggi l’esplosione dei social sembra inarrestabile, sospinta dalla cultura della personalizzazione.
La nuova realtà che viene raccontata dai media è quella che si compone di centinaia di milioni di frammenti specifici, relativi ad ognuno dei singoli utenti. Mentre lo scenario complesso e unitario di cui l’opinione pubblica era testimone ed analista ormai svanisce.
Ognuno di noi leggerà un giornale diverso e vedrà una Tv diversa dal suo vicino. E soprattutto, questo è l’effetto dell’offerta di news on demand, ognuno di noi riceverà solo notizie e contenuti che in qualche modo conosce già, mentre non intercetteremo quello che era il valore aggiunto dell’informazione generalistica: l’infarinatura di tutto ciò che non sapevamo esistesse e che perciò ci sorprendeva.
La serendipity, la capacità appunto di sorprendere ogni lettore o spettatore, con una serie di contenuti selezionati fra quelli che il mondo propone, a prescindere dai profili degli stessi utenti, non ha cittadinanza nel mondo on demand.
La pubblicità, che pure è stata un motore della serendipity, apparendo a sorpresa negli spazi dove si supponeva che potesse rintracciare l’attenzione di grandi platee indifferenziate, oggi segue la curva culturale che vede segmentare gli interlocutori all’origine: io scelgo i contenuti che seguono certi profili per arrivare a specifici modelli di utenza.
Siamo ad un vero tornante: la personalizzazione non è una scelta ma un destino, ci dice Manuel Castells.
Ma l’omologazione alle nuove forme di condivisione dei contenuti, secondo culture e meccanismi estranei ai mass media, è un suicidio. L’area della professionalità della comunicazione è destinata a ridursi.
Le redazioni si sfoltiranno ulteriormente, e nuovi profili di mediatori di flussi di comunicazione attecchiranno in nuovi ambienti, come la pubblica amministrazione, le divisioni marketing delle aziende, i mondi dell’associazionismo.
Ma se vogliamo che la democrazia delle opinioni possa ancora appoggiarsi su un tessuto di valori e, perché no, di sogni connessi tra loro se non proprio comuni, allora dobbiamo salvaguardare la biodiversità dei linguaggi generalisti: minoritari ma persistenti. Come i dialetti.