Europa
Google sta cominciando a prendere le misure delle conseguenze della sentenza della Corte di Giustizia europea secondo cui il gestore di un motore di ricerca online è responsabile dei dati personali che ha trattato anche quando questi appaiono su pagine web pubblicate da terzi, in nome del cosiddetto ‘diritto all’oblio’ (Scheda).
Secondo quanto riferito da Reuters, le prime richieste di rimozione di informazioni personali discutibili dal motore di ricerca stanno già arrivando ma Google sta ancora cercando di capire come gestirle.
La sentenza – che riguarda una regione, l’Europa, con 500 milioni di abitanti – richiede ai motori di ricerca di rimuovere dai risultati informazioni giudicate ‘inadeguate, irrilevanti o non più rilevanti’, pena una sanzione economica per mancata tutela della privacy. I cittadini possono presentare le richieste direttamente ai motori di ricerca, senza passare dalle autorità o dagli editori. Se il motore di ricerca decide di non rimuovere il link, l’interessato può passare alle vie legali.
Sembra poi che i motori di ricerca abbiano maggiore spazio di manovra nel caso in cui la richiesta di rimozione arrivi da un personaggio pubblico e le informazioni che si chiede di cancellare siano di pubblico interesse. Sarà in ogni caso necessario autenticare ogni singola richiesta, per accertarsi che provenga effettivamente dal titolare dei dati.
Come si muoverà, quindi, Google? Dovrà mettere in piedi un’armata di ‘esperti in cancellazione’? Dovrà farlo in ciascuno dei 28 paesi europei, anche in quelli dove non ha attività? E queste persone dovranno occuparsi soltanto di rimuovere i contenuti contestati o entrare nel merito della validità della richiesta? A tutte queste domande deve ancora essere trovata una risposta, tanto più che secondo alcuni giuristi la sentenza non fornisce criteri abbastanza chiari per determinare se una richiesta è legittima o meno.
La decisione dei giudici europei, ovviamente, ha sollevato un polverone.
L’autorevole Wall Street Journal l’ha addirittura paragonata alla minaccia dei regimi autoritari che vogliono controllare il web spiegando che i giudici europei vogliono obbligare i motori di ricerca a “censurare e ostacolare il libero flusso delle informazioni” e affermando: “preparatevi a un internet con le frontiere”.
Secondo il quotidiano, insomma, si rischia una ‘balcanizzazione‘ del web, perché la sentenza non chiarisce se la rimozione dei link contestati dovrà avvenire solo nel paese da cui parte la richiesta o in tutti gli Stati Ue. “Gli americani – spiega il WSJ – potranno accedere a contenuti inaccessibili per gli europei”.
Senza contare, sottolinea ancora, che Google già rimuove determinati contenuti in base alle leggi dei vari paesi europei (in Francia e Germania, ad esempio, ci sono limitazioni all’accesso ai siti che incitano al nazismo) ma ora dovrà rispondere alle richieste di rimozione di privati cittadini e dovrà bilanciare diritto alla privacy e pubblico interesse caso per caso.
Se secondo il presidente di Google, Eric Schmidt, “è in atto una collisione tra il diritto all’oblio e il diritto di sapere”, per il WSJ “la sentenza apre una nuova ampia strada per la censura del Web e danneggia l’interesse pubblico più di quanto non protegga la privacy”.
È da dire, comunque, che le web company americane si sono fin da subito schierate contro la proposta della Commissione europea di introdurre nella riforma della normativa sulla protezione dei dati il ‘diritto all’oblio’ (ossia la possibilità di cancellare i dati immessi in rete se non sussistono motivi legittimi per mantenerli), sottolineando che avrebbe avuto un serio impatto sulla libertà di espressione e il diritto alla conoscenza e definendo le intenzioni del commissario Ue Viviane Reding ‘draconiane’, ‘prescrittive’, ‘onerose’ e ‘costose’.
Google controlla il 95% del mercato della ricerca online in Europa e ha già qualche esperienza in fatto di ‘rimozione’, essendo il gestore di YouTube, per il quale ha messo in piedi un sistema di scansione automatizzato dei contenuti inadeguati.
Si potrebbe a questo punto pensare a creare un simile sistema anche per i contenuti del motore di ricerca. Ma se anche così non fosse, a chi paventa “l’assunzione di centinaia di avvocati per gestire le richieste di rimozione”, verrebbe da rispondere che i costi per mettere in piedi uno staff ad hoc – e allinearsi quindi a una sentenza emessa in una regione in cui si è operatore dominante e si producono lauti profitti – sarebbero comunque irrilevanti per un’azienda che lo scorso anno ha generato ricavi per 60 miliardi di dollari.