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Italia
Il fenomeno Bitcoin, esploso su scala globale alla metà del 2013, oltre ad attirare l’attenzione degli investitori ha destato le istituzioni che, pur mancando un approccio coordinato a livello internazionale, hanno cominciato a produrre definizioni giuridiche e norme per tentare di disciplinare un fenomeno completamente nuovo.
Come vedremo gli USA sono stati i più attivi, mentre l’Europa si è mossa, come da tradizione, in ordine sparso. In Italia, tranne due eccezioni, tutto tace: anche Bankitalia, che ovviamente sta studiando il fenomeno, non ha preso ancora nessuna posizione. Eppure la Banca Centrale Europea ha fornito a tutte le banche nazionali un’utile cartina sin dal 2012 con uno studio approfondito sulle criptomonete.
Curioso che nel nostro Paese il Bitcoin sia argomento affrontato da due organi considerati lenti: il legislatore e il Cnel, che invece hanno prodotto il primo un emendamento (poi ritirato) presentato dall’On. Sergio Boccadutri; il secondo con un corposo studio prodotto che ha però avuto una circolazione minima.
Negli USA ad aprire la questione è stato Francois Velde, senior economist della Fed, secondo il quale il Bitcoin sarebbe una “fiduciary currency” cioè una moneta basata sulla fiducia dei privati, dato che manca una forma di garanzia statale. Nel novembre dello scorso anno vi è stata l’importante presa di posizione ufficiale del Governatore della Fed Ben Bernanke che ha esplicitamente “benedetto” la novità digitale, spiegando in una lettera al Congresso che le monete virtuali “possono essere promettenti nel lungo periodo” e che potrebbero “promuovere sistemi di pagamento più veloci, sicuri ed efficienti”. Posizioni di apertura sono state manifestate anche dalla Sec (l’equivalente americana della nostra Consob) e dal Ministero della giustizia, mentre maggiori perplessità sono emerse dalla Homeland Security che teme il possibile intervento della criminalità nell’ambito della valuta virtuale.
Gli USA si sono quindi mossi prontamente con un ventaglio di istituzioni che hanno preso posizione, seppur in modo scomposto. Al momento l’ultima parola è quella della potente IRS (l’agenzia delle tasse) che è arrivata solo nel marzo di quest’anno stabilendo che, a fini fiscali, il Bitcoin è da intendersi come una proprietà e quindi vi sarà applicabile la normativa vigente per le transazioni di azioni e baratto. Scelta che ha innescato molte polemiche, non solo per le differenze rispetto ai precedenti pronunciamenti in materia, ma anche e soprattutto perché imporrà degli oneri piuttosto gravosi sia ai privati che possiedono la moneta, che alle aziende che l’accettano come mezzo di pagamento. Chiunque maneggi la criptovaluta sarà costretto dalla regolamentazione fiscale a tener nota diligentemente di tutte le operazioni di compravendita e di tutte le oscillazioni di prezzo (che come si sa sono piuttosto ampie e frequenti): un vero e proprio incubo contabile.
Cosa che non si sarebbe verificata se il Bitcoin fosse stato catalogato alla stregua di una moneta straniera o come una forma di ricchezza, come previsto per esempio dal fisco norvegese.
Ancor meno coordinato è stato l’approccio europeo: il primo intervento, scientificamente poderoso e che avrebbe dovuto tracciare la rotta per tutti, è stato quello della BCE dell’ottobre 2012 che ha valutato con attenzione il nuovo fenomeno mettendone in luce alcune criticità, come per esempio le sue affinità con lo Schema Ponzi, una forma di truffa nata nell’Inghilterra vittoriana e diventata famosa negli USA negli anni 20, che promette mirabolanti guadagni futuri e che all’inizio dà ai primi investitori lauti ritorni per attrarne di nuovi. La BCE pur riscontrando la qualità tecnica dell’infrastruttura informatica, ne evidenziava i pericoli teorici per la stabilità dei prezzi e per gli equilibri finanziari. Inoltre Francoforte sottolineava come questo fenomeno fosse destinato a svilupparsi nel prossimo futuro, non solo perché legato al commercio elettronico in continua crescita, ma anche perché nell’economia globale aumenta anche la richiesta di anonimato per quegli affari che per comprensibili motivi preferiscono l’opacità alla trasparenza.
Detto questo, passati 18 mesi, molte posizioni si stanno ancora facendo aspettare, anche se alcuni Paesi hanno affrontato il tema ….
Il Governatore della Banca Centrale del Lussemburgo, Yves Mersch, si è occupato in più di un’occasione del Bitcoin, definendolo “digital cash” o anche “moneta locale di internet”, elogiandone gli aspetti tecnici, ma anche sottolineando come il fenomeno sia estremamente circoscritto. Più pragmatica, come da tradizione è stata la Bank of England che alcune settimane fa ha dichiarato che le monete digitali “al momento non sono diffusamente usate come mezzo di scambio, bensì la loro popolarità è legata alla capacità di essere strumenti d’investimento finanziario” (asset class). L’inquadramento giuridico fa si che poi che la BoE opti per la definizione di bene, considerando il Bitcoin alla stregua dell’oro e di tutti quei beni utilizzati come riserva di valore. Anche la banca centrale russa ha dichiarato a marzo che non ha in programma di vietare l’uso del denaro digitale, mentre la Banque de France ha invece sottolineato i pericoli legati a un mercato non regolamentato e non garantito perché basato esclusivamente sulla fiducia nei confronti del sistema informatico. Insomma, le principali banche centrali del continente che hanno tra i propri compiti proprio quello di regolamentare la moneta si sono interessate alla questione.
Il problema è che sta diventando sempre più urgente in Europa una definizione e un perimetro di regole sul mondo delle criptomonete perché sono sempre di più le aziende, anche molto grandi, in attesa di capire se e come accogliere il Bitcoin tra i propri strumenti di pagamento e per quanto riguarda il nostro Paese questa attesa è tutta rivolta a Bankitalia.