Il modello di Rai di Matteo Renzi, così come ce lo raccontava ieri Repubblica, fa giustizia di una sesquipedale stupidaggine che ci passiamo di bocca in bocca da qualche tempo, e prefigura una minaccia insidiosissima.
Fuori la politica dalla Rai?
La stupidaggine che dovremmo, una volta per tutte, liquidare, è riassunta nel grido: fuori la politica dalla Rai. Corretta, parzialmente, dalle versione più allettante: fuori i partiti dalla Rai. In entrambe le versioni, sarebbe un ineluttabile suicidio.
Un servizio pubblico destinato a concorrere alla creazione di senso comune, questo è la Rai, deve, costituzionalmente, essere agganciato al principale senso comune che si configura in una democrazia: la rappresentatività politica. Quello che non deve fare, una comunità professionale, come i giornalisti del servizio pubblico, è delegare alla propria subalternità al gioco politico la propria carriera. Ma questo dato afferisce alla capacità di ciascuno di salvaguardare la propria dignità, oltre che alla capacità di animare un trasparente e feroce conflitto, come pure in passato abbiamo dato prova di saper fare.
Ma la politica, la buona politica, con l’articolazione del dibattito e delle culture dei partiti, che la sostanziano, deve essere matrice del servizio pubblico, come lo deve essere della sanità pubblica o della scuola pubblica. Una buona politica che orienti, indirizzi, e decida il modo e l’obiettivo per cui deve operare quell’apparato strategico che è appunto un servizio pubblico di senso.
La riforma di Renzi
La riforma di Renzi, vedremo poi i dettagli, se confermata nella versione di Repubblica, afferma questo principio. Il Parlamento come editore – e chi sennò? – l’Esecutivo come supporto. In più, da quello che si legge, sembra finalmente affacciarsi una scelta che estende la base sociale dell’azienda, coinvolgendo forze reali nella competizione globale come le comunità locali (la Conferenza Stato – Regioni, a cui aggiungerei quella Stato – Comuni) e il sistema della formazione applicata, le università.
Da definire la figura dell’Amministratore Delegato
Rimane da definire la figura dell’amministratore delegato. Chi scrive nel 1997 collaborò al primo disegno di legge che istituiva la figura dell’amministratore unico, sul modello inglese: responsabilità personale per i risultati, senza nascondersi dietro le alchimie di un Cda, con un mandato dettagliato da parte del Parlamento. Per questo sono naturalmente d’accordo sulla figura dell’amministratore delegato che spazzi via il modello da consiglio comunale del CDA.
No al modello privatistico
Ma anche qui la differenza è il mandato pubblico, la mission strategica, dell’azienda, di cui l’amministratore delegato è strumento e non matrice. La Rai non deve essere, cosa che l’attuale direttore generale ancora non ha capito, ma avrà tempo per ripensarci una volta dimesso, un’azienda privatistica. Come non può esserlo un ospedale o una scuola.
La Rai deve rendere al paese un servigio che nessun privato potrebbe fare, altrimenti lo farebbe a buon diritto, ossia: investire con capitali “pazienti” come li definiscono gli economisti dell’innovazione, su linguaggi e tecniche che diano autonomia e sovranità al paese nell’economia della comunicazione. Scriveva John Keynes, che in materia di ruolo pubblico qualcosa sapeva: “La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno già, e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente, non si fa del tutto”.
La gestione trasparente e senza sprechi non ha nulla a che fare con una politica speculativa efficientistica che minimizzi i costi e massimizzi i profitti. Il punto è come fare “ciò che presentemente non si fa del tutto”, come diceva Keynes, nella multimedialità nazionale.
Esplicitare la missione pubblica
Per questo, proprio mentre si impone una torsione manageriale, deve essere chiara, esplicita e condivisa la mission pubblica: protagonismo tecnologico nei linguaggi intelligenti, autonomia professionale nel produrre informazioni e senso comune, supporto alla competizione linguistica globale del sistema paese, nazionale e locale. Questa è la Rai, altro che il brodino del maestro Manzi, che Dio lo abbia in gloria.
Piccolo canone, piccola mission?
E qui si profila la minaccia che intravvedo: piccolo canone, ancorché grande gettito, piccola azienda, piccola mission. Sminuzzare il canone può aiutare psicologicamente il governo, ma non da solennità e valore ad una scelta strategica: mettere in campo una risorsa pubblica per incrementare il valore di ognuno. Inoltre vedo nello sminuzzamento anche un modo per disgiungere canone e servizio. Come diceva Giulio Andreotti, pensar male è peccato, ma spesso ci si azzecca.
Raccomanderei al legislatore, innanzitutto, e alle componenti sociali poi e ai produttori, infine, grande attenzione su questo tema. La solennità e la concretezza del servizio pubblico multimediale.
Alla larga dalla retorica dell’education, education, education. Se vale per il paese nel suo complesso, quando si vuole dare priorità agli investimenti formativi, non vale per un apparato pubblico che deve garantire competitività e sovranità nazionale nella transizione al digitale. In tal caso vale il trittico: Jobs, Jobs, Jobs. Non nel senso di lavori ma di Steve.
Modello Steve Jobs
La Rai deve ripercorrere la strada di rinascita che imboccò il creatore della Apple quando fu chiamato a rilanciare la sua azienda: una piena autonomia tecnologica per avere una piena sovranità di linguaggi. Saper disegnare l’iPhone per poter far parlare l’iPhone. Non importare algoritmi e sistemi editoriali per adeguarci alle logiche del marketing di Google o di Dalet.
Questa è la strada della BBC. Esattamente l’inverso di quella imboccata dagli attuali dottor Stranamore in miniatura che stanno giocando con l’azienda per ridurre i costi di creatività e aumentare gli acquisti di software e content. A casa i ragionieri e grande alleanza fra professionisti, enti locali, e sistema della creatività nazionale, orchestrato dalla buona politica, per far parlare tutte le diverse Italie con il mondo. Per questo un nuovo contratto di servizio che sia una vera lista della spesa per capire cosa il paese voglia fare con la Rai e come. Un vertice che congiunga l’azienda ai motori economici e culturali del paese, un manager che dia slancio e credibilità alla buona politica. Il tutto in grande, perché l’Italia con la Rai ci mangia, e non ci gioca.