#Odiens è una rubrica a cura di Stefano Balassone, autore e produttore televisivo, già consigliere di amministrazione Rai dal 1998 al 2002, in collaborazione con Europa.
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Pubblicato su Odiens, Europa il 18 novembre 2014
In questo autunno del nostro scontento (del resto abbiamo alle spalle tredici trimestri di recessione) ci mancavano giusto i lanci di fumogeni degli ultras Croati per definitivamente rassegnarci all’idea che l’universo delle passioni sia davvero inesplorabile, non come la cometa come diavolo si chiama sulla quale almeno puoi spedire un robot a fare fotografie e trivellazioni (e anche standosene in bilico!).
Tanto più che, a trivellare le menti assiepate nelle curve degli stadi, non sappiamo cosa ne verrebbe fuori: Bisogno di appartenenza?
Voglia di lasciare tracce nell’acqua dell’esistenza?
O semplice dipendenza da pusher e presidenti, in vena di disporre di milizie personali a protezione dei propri affari?
O chissà cos’altro.
Per sfuggire al malumore suscitato da questi enigmatici, oltreché sgarbati, compatrioti, ieri abbiamo deciso di spegnere la tv (alla faccia della Nazionale) e siamo andati al cinema per ‘Torneranno i Prati’ di Olmi, del quale la sera prima a cena ben tre amici su tre ci avevano detto meraviglie.
Così abbiamo vinto la nostra naturale resistenza verso i racconti “buoni” (seguiamo Cesare Borgia ed Enrico VIII, oltre che amare Sergio Leone e Quentin Tarantino) e ci siamo affrettati in una saletta non grande, ma accettabilmente popolata di pubblico (non eravamo tantissimi, ma molti di più che quattro gatti).
E ci siamo trovati con un film fotografico, in quasi bianco nero, che ci parlava dell’”inutile strage” (come la bollò il Papa di allora, Benedetto XV) della guerra del ’14-’18, con gli uomini nelle trappole delle trincee, col sentimento (Ungaretti) delle foglie d’autunno che sanno di dover cadere.
Nobile il film, fredda la nostra risposta, perché ci sembrava di averlo già visto e non ci restava che apprezzare, per quanto ne capiamo, i meriti dell’Olmi regista, la accuratezza evocativa dei dettagli, la asciuttezza nel rendere la condizione di quei nonni e bisnonni nostri.
A modo suo un film che cerca di fare a meno della passione e della commozione da sceneggiatura per proporsi piuttosto come documento.
Qui ci pareva di intravederne il maggior pregio, ma naturalmente parliamo per noi.
Però tutto ci aspettavamo tranne che, all’indomani, scoprire che, passioni o non passioni, il film si sta facendo la sua strada sugli schermi cinematografici della stagione, avendo già staccato in un paio di settimane 127mila biglietti, pochi rispetto ai film bim bum bam e ah ah ah che vanno per la maggiore, ma tutt’altro che pochi in assoluto e con un dettaglio interessante: la prima settimana Olmi era proiettato su 106 schermi; alla seconda gli schermi sono diventati 136.
Segno che i programmatori avevano percepito, sentendo le reazioni del pubblico alla prima uscita, che gli spettatori sarebbero potuti aumentare.
Ed è avvenuto. Un piccolo fenomeno, che col cinema talvolta capita (e il successo del Leopardi, ci dicono gli esperti, gli ha fatto da battistrada).
Ma la domanda è: come fanno a convivere nello stesso paese, separati in Patria, quelli che giocano alla guerra nelle curve Nord e Sud e gli altri che, zitti zitti, si infilano a contemplare la guerra in quanto assurdità totale?
E che usciti dalla proiezione suggeriscono ad amici e sodali di provare la stessa esperienza pagando 8 euro a testa (il prezzo del biglietto, almeno a Roma)? E che, oltretutto, hanno amici che lo fanno.
Per adesso queste due tribù si stanno ignorando o, meglio, frequentano luoghi e praticano consumi diversi, non sono in competizione su nulla.
Ma la crisi sociale, le tante Tor Sapienza in crisi, l’opposto atteggiamento verso gli immigrati, la diversità del capitale culturale e delle fonti di reddito, potrebbero portarle faccia a faccia. Cosa succederebbe in questo caso?
Tanto per capire, capitasse mai quell’occasione, se la guerra è davvero l’assurdo che mostra Olmi. O è invece la regola, e non la minore, della coesistenza.