Donald Trump si è scagliato contro Apple, rea, secondo il presidente degli Stati Uniti, di non fornire le backdoor (le stesse che contesta a Huawei) per accedere ai due iPhone di Mohammed Saeed Alshamrani, che, il 6 dicembre scorso, ha ucciso tre marinai e ferito altri otto, prima di essere a sua volta freddato, nella base aeronavale di Pensacola, in Florida.
“Aiutiamo Apple costantemente sul commercio e su molte altre questioni, eppure loro si rifiutano di sbloccare i telefoni utilizzati da assassini, spacciatori e altri violenti criminali. Dovranno fare un passo avanti e aiutare il nostro grande Paese, ORA!”, ha scritto Trump su Twitter.
Dunque, Apple, dopo il caso di San Bernardino, finisce di nuovo nel mirino del governo statunitense. La società guidata da Tim Cook ha spiegato nei giorni scorsi che sta collaborando con l’FBI per provare ad accedere all’account Apple del killer, ma ha ribadito che non esiste una porta secondaria per accedere agli iPhone. Una scelta, questa, che Apple ha più volte difeso nel corso degli anni, motivandola con la necessità di proteggere la privacy degli utenti da potenziali attacchi di hacker, ma è anche una strategica scelta di marketing: il messaggio che passa ai consumatori è che l’iPhone è sicuro e neanche l’FBI può accedere alle sue informazioni.
Il procuratore generale statunitense: “Una legge per obbligare le big tech a creare backdoor per l’Intelligence”
Il procuratore generale statunitense, William Barr, ha definito atto di terrorismo la sparatoria di Mohammed Alshamrani ed ha aggiunto che Apple non ha fornito “assistenza sostanziale” per accedere ai due telefoni, un iPhone 5 e un iPhone 7. Barr è ormai da luglio scorso che sostiene la necessità di una legge per obbligare le big tech (anche Facebook ha risposto a picche) a creare backdoor per l’intelligence per giungere alle “prove digitali” di criminali e terroristi.
Per questo motivo Barr ha invitato Apple a trovare un modo per decifrare i telefoni crittografati dell’assassino, perché gli smartphone potrebbero fornire maggiori informazioni sulla sua radicalizzazione: lo studente aveva pubblicato messaggi contro gli Usa sui social due ore prima di aprire il fuoco.
I suoi due iPhone sono bloccati con codici di accesso sconosciuti e crittografati. Quando ha cominciato a sparare ha buttato a terra uno dei due iPhone per centrarlo con una pallottola, con l’obiettivo di distruggerlo per impedire l’accesso ai dati. L’FBI è riuscito a farlo funzionare di nuovo, ma non riesce ad accedere per via del codice di blocco, così ha chiesto ad Apple di realizzare un software o aprire una backdoor nell’iOS per accedere ai due smartphone.
Apple ha detto di no. Si è totalmente opposta alla richiesta dell’FBI di aprire le “porte” nei due iPhone del killer. Ecco perché.
Perché Apple non vuole sbloccare gli iPhone del terrorista?
Apple ha risposto all’accusa di Barr, che ha parlato di una sostanziale mancanza di collaborazione concreta da parte dell’azienda. Apple ha ribattuto dicendo di aver messo fin da subito a disposizione dell’FBI diverse informazioni sugli account dell’allievo pilota saudita, “tra cui backup di iCloud, informazioni sull’account e dati transazionali per diversi account”, spiegando di aver ricevuto richieste relative a un suo secondo iPhone solamente un mese dopo la sparatoria.
Anche in questo caso, Apple ha ribadito un forte principio che ormai porta avanti dalla strage di San Bernardino del 2015, anche allora si oppose all’ordine del Tribunale di fornire una backdoor per accedere all’iPhone 5C dell’attentatore.
“Abbiamo sempre sostenuto”, spiega in una nota la società di Cupertino, “che non esiste una backdoor solo per i buoni. Le backdoor possono essere sfruttate anche da coloro che minacciano la nostra sicurezza nazionale e la sicurezza dei dati dei nostri clienti”.
“Oggi le forze dell’ordine”, conclude Apple, “hanno accesso a più dati che mai nella storia, quindi gli americani non devono scegliere tra indebolire la crittografia e risolvere le indagini. Riteniamo che la crittografia sia di vitale importanza per proteggere il nostro Paese e i dati dei nostri utenti”.
La soluzione che non mette a rischio la privacy di nessuno
Dunque, per Apple la privacy di tutti i possessori di iPhone prevale sulla necessità di avere maggiori informazioni sulla vita digitale di un terrorista, peraltro ucciso nella sparatoria. A questo punto all’FBI non resta la strada alternativa già percorsa: rivolgersi a pagamento alla società israeliana che riuscì poi a penetrare nell’iPhone del terrorista della strage di San Bernardino.
Una soluzione che non mette a rischio la privacy di nessuno e segna un nuovo punto a favore delle big teh nella guerra della crittografia, portata avanti dall’amministrazione Trump.