Se in passato qualcuno aveva espresso dei dubbi, questi dieci mesi di pandemia hanno dimostrato senza alcun timore di smentita che viviamo buona parte delle nostre giornate tutti dentro un unico computer globale. Siamo ormai stati risucchiati dentro una grande macchina digitale che è stata molto utile per salvare i nostri legami con gli altri e con il mondo ma, allo stesso tempo, si prende molte ore e tantissimi giorni delle nostre vite e non le lascerà più. Inoltre, in tempo di pandemia le carenze di soluzioni tecnologiche pubbliche e aperte a supporto della vita online dei cittadini, ha spinto alcuni miliardi di persone velocemente dentro lo spazio digitale costruito dalle piattaforme delle grandi compagnie che ormai vivono accanto a noi nelle ore dedicate al lavoro, alla scuola e agli affetti. Sono state quelle piattaforme a ridisegnare le distanze e le forme del nostro agire collettivo. Lo hanno fatto nei mesi passati e lo faranno anche in questo primo anomalo “Natale digitale” fatto di auguri online densi di bit, pixel e scambi di regali in gran parte agevolati dall’e-commerce.
Questa inedita condizione vitale, nella quale i limiti fisici delle feste natalizie si fermano poco dopo la porta di casa mentre quelli digitali raggiungono l’intero mondo, ha trasformato le esistenze quotidiane delle persone, le relazioni e i sentimenti personali, in oggetti e valori di una nuovissima economia innestata su vecchi commerci. Nell’economia digitale le operazioni di produzione e vendita sono spesso celate e molte persone non riescono a coglierne i meccanismi di scambio, di acquisto, di cessione e di guadagno. La raccolta di piccoli e grandi quanti informativi, la loro memorizzazione, la compravendita di dati e servizi e la loro analisi con algoritmi ‘intelligenti’, sono operazioni che ormai hanno creato mutazioni economiche e finanziarie generando il capitalismo dei dati che in pochi anni ha saputo produrre enormi accumulazioni di ricchezza, di conoscenza e di potere.
Da qualche tempo diversi studiosi hanno spiegato come il nuovo baratto digitale, costruito sullo scambio di informazioni e servizi con i nostri dati personali, sia alla base di questa nuova economia che ha fatto sì che il vero prodotto siamo noi. Forse si sta completando il ciclo di maturazione del capitalismo verso un’economia pienamente immateriale. Una fase avanzata che prevede che ogni elemento del reale (codificato come sequenza di bit) possa diventare merce. In Internet ormai questo avviene in ogni secondo di ogni giorno. Non esistono precedenti simili nella storia dell’umanità anche in termini di pervasività e impatto. Il ciclo pubblicità–profilazione–pubblicità (che ha un corrispettivo nel ciclo produzione–marketing–vendita) ha ormai raggiunto uno stadio di quasi perfezione. Così, oltre a gonfiare le tasche dei grandi giganti del Web, questa successione sembra autoalimentarsi senza una fine e senza un fine che sia esterno alla sfera economica e di potere. Anche su questo versante, il Natale 2020 non fa eccezione, anzi ne rappresenta una singolare conferma. Il digitale è un surrogato capace di rendere meno duro il distacco fisico, salva molte vite e acquista maggiore credibilità agli occhi dei suoi utilizzatori.
La stretta relazione tra economia e politica ha spinto il digitale a invadere anche questa sfera. La nuova guerra fredda si sta combattendo tra USA e Cina e si svolge tutta sul terreno digitale. Dietro questi due giganti l’Europa arranca e cerca di attivare meccanismi di difesa come, ad esempio, il Data Governance Act. La spinta dei governi del mondo verso l’uso massivo di computer, dati e software sta facendo sì che le nuove piattaforme informatiche siano i veri palazzi del potere. La critica politica e sociale si dovrebbe rivolgere sotto le loro finestre, davanti ai loro portoni, più che davanti alle sedi della politica. Con la forza propria dei mutamenti epocali e l’intensità delle grandi conquiste dell’Umanità, le tecnologie digitali hanno infatti innescato mutamenti profondi nel tessuto istituzionale e nella stessa struttura sociale. Da un lato hanno concentrato il potere tecnologico nelle mani di pochi soggetti e d’altro lato hanno reso inutili quei corpi intermedi che il populismo intendeva superare. La ridefinizione dei rapporti e delle distanze operata dal digitale ha favorito tutto questo, ridisegnando il raggio di estensione del potere insieme ai nuovi confini delle libertà dei cittadini. Il recente breve crash di alcuni servizi di Google, inclusi quelli della piattaforma usata per le video call e per la DaD, ha creato problemi a molti milioni di persone e ha mostrato come la vita di molti sarebbe stravolta dall’impossibilità di usare le piattaforme del gigante di Mountain View.
La grammatica delle piattaforme, dei social e delle app ha preso il sopravvento nel nostro quotidiano. Alcuni la conoscono e la modellano, altri la inseguono e stentano a capire come si esprime, come si ‘scrive’, come ci si connette ad essa e come ci si relaziona efficacemente tramite di essa. Come si agisce e si reagisce durante il suo uso. Nonostante la sua importanza, la grammatica è il livello più basso delle forme di manifestazione del digitale. Il livello più interessante e più potente è espresso dalla sua semantica. Il significato dell’ecosistema online che ingloba ogni tipo di piattaforma digitale fornisce il senso delle azioni che possiamo compiere in esse, i limiti operativi e le loro espressioni in termini di effetti reali. La semantica di quello che guardiamo, di quello che scartiamo, della costruzione e gestione dei nostri contatti digitali, dei prodotti che siamo spinti ad acquistare. Il senso del tempo e dello spazio social, la sensazione di un’amicizia, dello scambio degli auguri, il valore di una cosa letta e di una scritta. Chi ci istruisce sul senso che assume un like o la gestione dei post che continuamente ci bagnano come onde impreviste? È questo il vero piano da sviscerare e da condividere socialmente.
Assieme ai due piani citati, esiste un terzo che tutti vediamo ma anch’esso necessiterebbe di indagini, spiegazioni e condivisioni collettive. È il livello della fenomenologia dell’online. L’insieme dei fenomeni che manifesta, delle caratteristiche con cui entra nelle nostre vite. Una ricognizione ordinata dei fenomeni delle piattaforme digitali è di grande utilità per offrire una descrizione del modo in cui si esse propongono e mostrano le loro funzioni, i loro effetti, principali e collaterali. Tutto l’online esprime una gigantesca fenomenologia multiforme che si manifesta in forme inedite, avvolgenti, travolgenti e pervasive. È la combinazione di un enorme flusso (personalizzato) di informazioni, di presenze digitali, di interazioni quasi caotiche la cui indagine e conoscenza non si è ancora raggiunta sufficientemente e, invece, è di grande importanza per la gestione degli aspetti economici, sociali e politici del digitale. Per quanto possa sembrare semplicistico, per governare gli effetti delle piattaforme digitali e della vita dentro il grande unico computer globale costruito intorno a noi, serve una didattica dell’online che sappia spiegarlo partendo dalla sua sintassi, analizzando la sua semantica e dando conto della sua gigantesca fenomenologia.
Questi sono aspetti troppo spesso trascurati nel dibattito sulla trasformazione digitale della società. Sono questioni tenute in scarsa considerazione dal grande pubblico che vive lungo le interconnessioni della Rete e si limita a ‘consumare’ il digitale. Un pubblico che non riflette a sufficienza sulla macchina digitale planetaria in cui vive e sembra soltanto interessato a cercare i suoi 15 minuti di notorietà mentre dovrebbe aspirare a 15 minuti di privacy e di riflessione. Nel suo libro Quasi una vita, pubblicato 70 anni fa e con il quale vinse il Premio Strega, Corrado Alvaro appuntava «È una società in cui ognuno è preoccupato di fare un piccolo monumentino a se stesso.» Quella considerazione fatta molti decenni fa, oggi è più che mai valida. La grande macchina digitale si è dedicata ad amplificare l’ego di ognuno di noi. Ma, mentre ci fa sentire migliori di quello che realmente siamo, ci prende in giro e ci vende ai grandi giganti del digitale che hanno imparato a calcolare i nostri piccoli egoismi personali per farli diventare fatturati e profitti (anche durante feste e riti millenari). Anche per queste ragioni una didattica e un’ecologia del digitale sono sempre più necessarie. Per avere contezza del nostro agire nel computer globale. Per farlo da soggetti che conoscono forme e percorsi, non da androidi che si muovono in un labirinto di bit e algoritmi. Per farlo magari anche a partire da questo singolare Natale del 2020.