Per il marketing e la comunicazione, l’identità è un concetto fondamentale, addirittura sacro. Perchè ci vogliono anni a costruire quella di una azienda e quella di marca a base di comportamenti coerenti, reputazione, eccellenti pipe-line di prodotti, ottimi servizi, pubblicità memorabile, sorprendente e convincente. E molto altro.
Bene. Lo stesso avviene in natura. Che si esprime con un indelebile imprinting nel DNA di qualunque essere vivente al momento del concepimento. Da quel momento in poi l’identità del soggetto e assegnata, il suo percorso è stabilito. Ma per una misteriosa distonia che affligge una percentuale oggettivamente piccola della popolazione, ci sono esseri umani che non si sentono a proprio agio nel sesso che gli è stato assegnato dall’incontro tra spermatozoo maschile e ovulo femminile.
Per cui comincia un percorso di sofferenza e poi anche di rivendicazione di un terzo sesso (o addirittura di 52 sfumature di diversa sessualità) e anche di giustificate campagne contro le discriminazioni, gravissime in passato, e sempre più rare oggi.
Negli ultimi anni queste battaglie sono diventate la bandiera di una forma di politically correct che l’Economist ha definito “La dittatura della tolleranza“, dove si afferma che “Qualsiasi opinione contraria all’ortodossia libertaria si scontra con una forma di tolleranza zero che etichetta chi la esprime come razzista, omofobo o transfobico. I gruppi di minoranza stanno imponendo i loro valori e i loro stili di vita a tutti gli altri”.
Il pensiero di questi gruppi di minoranza è stato adottato da grandi società di consulenza e da brand planetari, che lo stanno imponendo ai dipendenti e al grande pubblico tramite un’opzione di cultura aziendale chiamata “diversity and inclusion“.
Opzione ovviamente corretta quando si occupa di evitare discriminazioni di sorta o gap salariali. Assai meno quando diventa una forma di indottrinamento tramite la pubblicità o i corsi di educazione di genere per i figli dei dipendenti, che arrivano a considerare l’identità una gabbia da cui liberarsi, nei quali si insegna che il sesso biologico non esiste, e che è moderno e soprattutto politically correct non sentirsi vincolati dall’imprinting scritto nel DNA. E quanto sia giusto, se uno lo ritiene, perseguire la fluidità di genere, o addirittura il rifiuto del genere stesso.
È davvero paradossale che questa specie di guerra di liberazione venga applicata agli esseri umani, quando nel mondo del marketing è semplicemente considerata una bestemmia. Anche perchè ci sono stati un bel pò di errori pagati cari da chi ha voluto ignorare il valore dell’identità. Il più famoso è quello della Coca Cola, che nel 1985 cambiò gusto per assomigliare alla Pepsi, e dopo soli 79 giorni dovette fare precipitosamente marcia indietro per le clamorose proteste dei consumatori. In più, dopo diverse modifiche alla confezione, sono state pure ripristinate le antiche e molto riconoscibili bottigliette in vetro.
Lo stesso è avvenuto, ad esempio, prima dell’avvento dei canali pay e dei produttori di serie tv, nel campo delle reti tv. Quanti errori abbiamo visto nei tentativi di “ringiovanire” o cambiare senso a una rete modificando i palinsesti o intervenendo sugli orari dei programmi! Perchè una rete in realtà è la memoria storica sul telecomando: quel numerino non significa solo una posizione nella scala delle frequenze, ma un appuntamento con contenuti, palinsesti, narrazioni che costituiscono, per l’appunto, l’identità del canale. Cambiarla perchè il nuovo direttore vorrebbe farne un’altra cosa, espone agli stessi problemi che incontra chi ritiene di poter cambiare sesso o diventare “gender fluid“.
Sarebbe poi troppo lungo citare i grandi errori fatti nel sostituire i valori di marca promossi per anni in campagne di successo per inseguire qualche araba fenice del momento. O smettere di esaltare valori distintivi per promuovere valori genericamente promossi da tutti. Promuovere la parità di genere o combattere le discriminazioni di qualsiasi tipo dovrebbe essere oramai parte integrante della gestione di ogni impresa. Mentre diventa un argomento troppo generico se sfruttato da tutti indistintamente, oltretutto con fini commerciali.
Ne consegue che l’identità è un bene prezioso, che invece va coltivato e difeso sia nel marketing che nella vita degli esseri umani. E’ quindi sempre più incomprensibile che grandi brand abbraccino e promuovano l’ideologia gender che mira a delegittimare la famiglia tradizionale in favore di quella omogenitoriale.
Perchè un conto è chiedere rispetto e riconoscimento di diritti per determinate scelte di vita (come peraltro è già avvenuto con le unioni civili), un conto è promuovere anche presso i più piccoli uno stile di vita che porta inevitabilmente al crollo delle nascite: per cui non si capisce a chi venderanno tra qualche anno i loro pannolini e tutti i loro prodotti per bambini. Espressi questo dubbio tempo fa in un articolo su Avvenire, ma nessuno dei brand in questione ha risposto, ancorchè anche autorevoli esperti di ricerca sociale li abbiano esortati a lasciar perdere un troppo abusato politically correct per tornate a battere una strada mainstream.
Ma è altrettanto grave che il virus dell’ideologia gender abbia attecchito fortemente anche nei programmi della RAI, Servizio Pubblico pagato dal canone, che dovrebbe informare, intrattenere ed educare, invece che diseducare con visioni del mondo assai poco condivisibili, come avviene sempre più spesso nei programmi più raffinati, meglio montati e meglio condotti della RAI: quelli in cui l’ottima Barbara Carfagna ci mette al corrente delle novità del digitale e dell’intelligenza artificiale.
Riprendo qui parte di un articolo che ho pubblicato da poco su IlSussidiario.net: “In Codice – la vita è digitale (e non è vero! n.d.a) e negli speciali TG1 curati dalla Carfagna, l’accurato racconto delle novità tecnologiche si accompagna sempre più spesso ad un convinto riduzionismo ad una costante promozione di teorie transumaniste e ad una incrollabile fede nella Singolarità come inevitabile destino dell’uomo. Fra i tanti esempi si può citare l’incresciosa intervista, in una puntata di Codice, ad una ricercatrice dell’Istituto Italiano di Tecnologia che illustrava, con un preoccupante sguardo allucinato, un metodo di rimozione degli stereotipi negativi (secondo il pensiero unico del momento, of course) tramite l’elettrostimolazione cerebrale. Roba che neanche gli scienziati criminali di Hitler avevano saputo immaginare. Ma l’abominio della desolazione, come direbbe la Bibbia, è stato però raggiunto nello Speciale TG1 dedicato all’identità digitale, in cui l’ideologia gender, che Papa Francesco ha definito “la modalità più specifica con cui si manifesta il male oggi…perché auspica una nuova torre di Babele” è stata presentata come uno dei traguardi più avanzati dell’era contemporanea.
Riporto qui la trascrizione letterale del testo, letto con accento assai assertivo, affinché se ne possa percepire la gravità: “Il digitale consente ai giovanissimi di oltrepassare le identità rigide di genere. Se per le generazioni passate l’identità di genere era biologica, in un contesto di possibilità di assumere identità multiple nelle reti, le giovani generazioni possono vivere una condizione di opzione sessuale temporanea. Esistono il maschile, il femminile ma anche il genere non binario, il non conformista, e così via”. A supportare la presunta validità di questi enunciati della teoria gender, è stato intervistato il direttore di Vanity Fair. Ma come! Uno si sarebbe aspettato almeno un neuroscienziato, uno psichiatra, e invece no, si è scelto di interpellare su tale delicato argomento il fluido direttore di una rivista di gossip e di tendenze modaiole. Che ha sentenziato: “I ragazzini della generazione Z (ragazzini mica tanto, hanno 21 anni, n.d.a), stanno cercando di scrivere un nuovo linguaggio del genere…ad esempio il gender fluid, o addirittura l’a-gender che rifiuta l’anima binaria”.
Incalzava Barbara Carfagna con un inno alla transizione di genere, mentre sullo schermo compariva un balletto di efebi seminudi intenti ad occhieggiarsi e a strusciarsi: “L’esempio concreto con cui il digitale si fonde con la nostra identità è la transizione di genere. È comune nella comunità transgender rivolgersi alla comunità digitale (le ripetizioni sono nel testo, n.d.a.) per trovare supporto e sostegno prima, durante e dopo la transizione. L’identità digitale nella forma di un profilo di social media o di avatar diventa una componente integrante dell’essenza. Le nuove generazioni vivono il processo di identità non più come qualcosa da preservare, ma come una gabbia da cui fuggire”. Sic.
Così è stata sistemata una questioncella fondamentale come l’identità, che da sempre è alla base della cultura dei popoli, dei rapporti umani ma anche economici, industriali e commerciali, insieme a un bel po’ di incontrovertibili leggi di natura. Che dire? Basta leggere e rileggere queste righe per rendersi conto, con preoccupato allarme, che sulla rete ammiraglia della RAI è andato in onda, per fortuna ad ora tarda, il sonno della ragione che genera mostri.