Concludiamo la pubblicazione del numero zero di DEMOCRAZIA FUTURA, promossa dall’Associazione “Infocivica – Gruppo di Amalfi” e diretta da Giampiero Gramaglia, con le prime “rubriche”, che vogliono essere un vero e proprio tessuto connettivo fra i vari numeri della rivista.
Oggi pubblichiamo la quarta rubrica “Quarta di copertina”.
“La grande promessa dell’Illuminismo fu quella della transizione all’autonomia di tutti gli umani, come esseri ragionevoli che perseguono fini comuni. Assumendo significati immaginari, il futuro, una forma vuota di tempo astratto, è stato dato come un futuro, sia esplorabile come un campo di possibilità e desiderabile come un insieme di promesse. Il programma progressista avrebbe dovuto svolgersi nel tempo della storia, finalizzato da libertà, razionalità e felicità universalmente condivise.
A titolo di autonomia, è l’anomalia che ha preso piede ovunque. Con la crisi dell’Illuminismo, l’utopia del progresso si è trasformata in utopismo tecno-informativo, mentre la marcia trionfale della storia verso la sua fine – la sua compiuta realizzazione – ha lasciato il posto a un movimento perpetuo, a un cambiamento autotelico idealizzato come tale. Con il culto del movimento per il movimento, sorge una nuova modalità di fatalizzazione del tempo, diciamo il movimentismo. La distruzione del futuro avviene nello stesso momento in cui gli individui si stabiliscono nonostante se stessi in un “presente perpetuo senza passato o futuro” (Orwell), inscritto in un destino planetario pensato in termini di “inevitabili vincoli” o di “sviluppi irreversibili”. Nel “presentismo” che è l’ethos del momento contemporaneo, riconosciamo naturalmente qualcosa del nichilismo: al “senza perché” dell’agitazione frenetica in un mondo caotico, ma affaticato come tale, si aggiunge la certezza spaventosa di non essere in grado di superare l’incertezza, di non essere in grado di immaginare il “che cosa”, non quello che sarà il futuro (il prevedibile), ma ciò che deve essere (il desiderabile).
È l’intera questione della responsabilità post-umanista e post-progressista – persino della temporalità post-storica e post-democratica – che si pone e che dovrebbe preoccuparci: siamo condannati a un democratismo planetario senza comunità democratiche viventi? Siamo condannati a un futuro senza avvenire? Ad una responsabilità senza speranza? La non speranza è il destino [che ci attende]?”
Presentismo e cancellazione dell’avvenire
Questa bellissima quarta di copertina de L’Effacement de l’avenir[1] non è scritta – come spesso avviene – dall’editore ma riprende l’introduzione dell’autore del saggio, Pierre André Taguieff, un filosofo e politologo francese d’origine russa, studioso dell’estrema destra e oggetto di strali polemiche da quasi tutti gli schieramenti politici per il suo anticonformismo e le sue capacità non solo di argomentare con grande acume e capacità analitica le proprie idee, ma di polemizzare contro tutte le subculture politico-ideologiche transalpine evidenziandone splendori e miserie senza far sconti a nessuno seguendo una tradizione di aristocrazia del pensiero che affonda le sue radici nel movimento situazionista dal quale è stato plasmato negli anni decisivi della sua formazione.
Scritto vent’anni fa, a cavallo fra due secoli e millenni, prima della caduta delle torri gemelle, quando ancora ci si chiedeva cosa sarebbe successo dopo la fine del Secolo Breve e imperversavano sulla scena intellettuale personaggi come Fukuyama e la sua teoria della Fine della storia, il saggio di Taguieff anticipa molte delle tendenze che – con la crisi delle ideologie e l’irresistibile ascesa, da un lato, delle globalizzazione dei mercati, dall’altro, della Civiltà della Rete – hanno caratterizzato quello che per l’appunto è stato definito il presentismo, ovvero la “simultaneità nell’istantaneità” per riprendere l’espressione di René Rémond,
Detto in altre parole, la fine della percezione delle distanze spazio temporali fra le allora nascenti generazioni digitali, genera nell’immaginario sociale collettivo la crisi non solo di ogni idea di progresso ma cancella per l’appunto la speranza in un mondo migliore, ovvero qualsivoglia rappresentazione dell’avvenire inteso in una prospettiva in grado di assicurare alle prossime generazioni migliori condizioni concrete di vita. Tesi che, mutatis mutandis, saranno poi al centro del dibattito culturale sia pure sotto altre prospettive più strettamente sociologiche e filosofiche, quando verranno rese note le teorie di Baumann sulla società liquida[2].
Chi si aspettasse di trovare nelle 250 pagine di questo saggio una dettagliata ricostruzione dei processi di dissoluzione dei vecchi assetti geopolitici dopo la caduta del muro di Berlino rimarrà deluso. Siamo in presenza di un saggio di pura analisi e teoria critica delle idee espresse da ristretti circoli intellettuali in un’epoca che Taguieff considera di decadenza del pensiero occidentale, sia, soprattutto, di critica dei discorsi e delle pratiche argomentative dei movimenti politici e sociali emersi in Francia e in Europa negli ultimi due decenni del Novecento, e in particolare il razzismo, l’antisemitismo, senza dimenticare, purtroppo, il cosiddetto revisionismo e il negazionismo, particolarmente attivi nella Francia di fine Novecento.
Da buon “Républicain”, Taguieff smonta con grande abilità argomenti e tesi che si propagano pericolosamente non solo nell’estrema destra nazional populista di Le Pen, ma anche nella società francese alle prese con le prime crisi derivanti dalla globalizzazione dei mercati e dalle prime incrinature al processo di costruzione di un’Europa politica soprattutto dopo la fine dei due settennati presidenziali di Francois Mitterrand, un periodo durante il quale Taguieff, contro corrente, si schiera a fianco di chi vuole soprattutto ridefinire i perimetri della sovranità esercitata dai valori laici della République.
L’Effacement de l’avenir – come tante altre opere del filosofo francese – va dunque considerato come un trattato di teoria delle argomentazioni e delle pratiche discorsive, pieno di neologismi e artifici della miglior retorica transalpina, seguendo una lunga tradizione epistemologica francese – in linguistica e nella fattispecie in filosofia del linguaggio nella fattispecie – che affonda le sue origini nella Grammatica avviata da due giansenisti nel 1660, Antoine Arnauld e Claude Lancelot, autori della celebre Grammaire de Port-Royal che ha come sottotitolo Grammatica generale e ragionata contenente i fondamenti dell’arte di parlare, spiegata in modo chiaro e naturale.
Anche in questo caso la Grammatica filosofica di Taguieff tratta e argomenta in modo articolato, ma sempre chiaro, tesi e concetti spesso complessi, che non possono essere banalizzati e semplificati come avviene sovente nella tradizione anglosassone, ma che, al contrario, richiedono di essere vivisezionati, esaminati e ricostruiti filologicamente e soprattutto sotto il profilo per l’appunto dell’argomentazione, affondando le loro ragioni in un’archeologia del sapere che costituisce un retroterra che non può essere cancellato tutto d’un colpo, pena l’essere intrappolata in quel vicolo cieco rappresentato dal “pensiero unico” dominante, irto di pregiudizi e idee preconcette.
Ecco la ragione per la quale questo testo ci interessa e questo approccio metodologico dovrebbe sorreggere le nostre analisi vent’anni: per non rimanere imprigionati negli schemi imposti dalle grandi piattaforme e dai social network dominanti, e per consentirci di esercitare nuove responsabilità nel governo delle comunicazioni elettroniche che rimangono al centro della società dell’informazione. Senza costringerci a rinunciare a continuare ad avere uno sguardo critico sui media e sulla società dell’informazione nella costruzione della Democrazia futura.
Ma torniamo all’architettura dell’opera di Taguieff. Il saggio è diviso in quattro parti:
1) Un futuro senza avvenire. Nel primo capitolo Taguieff analizza quello che definisce “il fallimento del progresso e l’eclissi dell’avvenire”, ovvero “l’impotenza della politica”. Ne deriva quella che nel secondo capitolo Taguieff chiama la “cancellazione insoddisfatta dell’avvenire”, fenomeno al quale concorrono tre tendenze dell’ethos contemporaneo: il presentismo, il movimentismo e il giovanilismo. Il lettore capirà subito le ragioni per le quali le argomentazioni di Taguieff possono aiutarci a comprendere aspetti di stretta attualità politica esplosi negli ultimi anni in Italia (ma non solo nella nostra Penisola), solo parzialmente oggetto di disamina nella stampa e nelle riflessioni dei nostri analisti politici
2) Non meno interessante risulta la seconda parte dedicata a Nazioni e nazionalismi in un mondo caotico a fronte di quella che il filosofo francese definisce “la fine dell’ottimismo storico”. Il terzo capitolo tenta di definire e criticare i capisaldi di quella che Taguieff al contempo qualifica come una “globalizzazione mercantile” e una “frammentazione etnonazionalista del mondo”, alla luce della dissoluzione della Jugoslavia e delle successive guerre nei Balcani e del riaffiorare delle piccole patrie, anticipatrici dell’ascesa di quello che più tardi verrà definito come “sovranismo”, un processo che lo stesso Taguieff nel quarto capitolo qualifica come “nazionalismi in divenire”.
3) Nella terza parte dello studio, Dall’avvenire del progresso al declino dell’avvenire, emerge soprattutto l’anima del filosofo e dello storico del pensiero moderno. Taguieff ricostruisce le complesse modalità che avrebbero provocato questo passaggio, interrogandosi – come molti filosofi e sociologi di fine Ottocento – sulla triade “storia, progresso e decadenza”, vivisezionando altresì (potremmo dire come un “patologo del pensiero”) un immenso corpus teorico che affonda le sue radici in tanti studiosi e pensatori, fra i quali il più noto in Italia è stato Georges Sorel[3].
Il quinto capitolo di questa terza parte potremmo dire dove prevalente risulta l’analisi filosofica delle idee, Taguieff affronta il tema La “religione del progresso: origini e incarnazione[4] di una rappresentazione. Il sesto capitolo esamina il passaggio “Dalle critiche al progresso ai pensieri della decadenza” secondo un processo che definisce come di “Diversificazione delle filosofie della storia”.
La conclusione di questa terza parte non rinuncia ad essere assertiva nel settimo capitolo intitolato “Il progresso perso o la convinzione del peggio”. Taguieff intravede in nuce, dietro a quella che chiama “diversificazione delle filosofie della storia”, ciò che – con una forzatura anacronistica – si potrebbe già definire una progressiva “frammentazione” o se preferite “decomposizione” dei pensieri e dei modi (o delle mode?) di pensare verso quella deriva pericolosa cui abbiamo assistito nell’ultimo decennio con l’esplosione delle filosofie del tipo “fai da te” e dei movimenti anti progresso e antipolitica[5].
4) Ancor più sorprendente il titolo della quarta e ultima parte del saggio, intitolata Democrazia ed espertocrazia, con il nono capitolo dedicato a “Lo scienziato, il politico e il cittadino: la democrazia catturata dall’espertocrazia”. Una problematica di critica nei confronti dell’establishment della Quinta Repubblica francese e di denuncia contro la proliferazione, nei posti di comando dell’Esagono, dei Consiglieri del Principe proveniente generalmente dall’Ecole Nationale d’Administrazione. Il lettore di questa recensione ritardata può dunque facilmente capire le ragioni per cui riproponiamo questo ponderoso studio, per nulla datato. Esso costituisce una valida premessa di analisi teorica – per capire i recenti conflitti (e talvolta battibecchi andati in onda su alcuni media) emersi in Italia in questo difficile 2020 dopo l’esplodere del Corona Virus – in seguito ad alcune lucide considerazioni di Massimo Cacciari di denuncia della Demagogia come arte di governo[6] riferite alla recente moltiplicazione delle “équipe di tecnici e di esperti” che affiancano il ceto politico e nella fattispecie il Governo centrale e le Regioni nella gestione dell’emergenza sanitaria.
Ma, evitando ulteriori divagazioni, riprendiamo l’analisi della struttura del saggio di Taguieff. Nel decimo e ultimo capitolo Taguieff propone una disamina di quella che definisce “l’utopia democratica e le élites della conoscenza” in cui si interroga sul ruolo a cui sono chiamate a rispondere le classi dirigenti francesi intese in senso lato, politiche economiche e intellettuali, che riassume nel trittico “interpretare, trasformare e ménager”, verbo, quest’ultimo che potrebbe essere tradotto in italiano con “gestire” o “risparmiarsi”, ovverossia come un invito, rivolto alle classi dirigenti medesime, non solo a continuare a riflettere, e progettare il futuro della nazione in termini appunto di trasformazione degli assetti esistenti , ma anche in qualche modo a rinunciare all’idea di continuare a gestire il potere “risparmiandosi” e trincerandosi per l’appunto dietro le prese di posizioni di portavoci, consiglieri, tecnici ed esperti, che grazie agli enarchi non mancano certo nell’Esagono[7] lasciando sottintendere in qualche modo un invito affinché le élite tornino a spendersi per assicurare un futuro migliore ai Citoyens, se non addirittura una radicale trasformazione della République.
Questo invito – vent’anni dopo – andrebbe esteso – ci sia consentito quest’ultimo excursus – ai nostri intellettuali nostrani – rimasti anch’essi per lo più salvo qualche sparuta eccezione in silenzio confinati nelle loro “agili” torri d’avorio – e, ancor di più, alla classe dirigente del Belpaese (ma è lecito domandarsi se esista davvero oggi in Italia una classe dirigente degna di essere riconosciuta come tale).
5) Nell’epilogo Taguieff si chiede se possa sussistere “Un avvenire oltre il progresso?”, ossia se il nostro futuro rischi di essere ipotecato dalle tendenze in atto e se vi sia ancora una possibilità di riscatto evitando di soccombere o comunque di rimanere impigliati nel presentismo e nel movimentismo dominanti.
E quanto ci proponiamo di fare con questa nuova testata su un piano molto più modestamente giornalistico attraverso la nostra Associazione, denunciando i rischi di derive totalitarie dall’attuale dittatura di chi controlla algoritmi, dati personali e le grandi piattaforme che dominano Internet nell’ambito del nuovo “Capitalismo della sorveglianza” affrontato sotto vari aspetti in vari contributi presenti in questo numero zero di Democrazia futura. Con la speranza di poter invertire questa perniciosa tendenza intravista da Taguieff in questo saggio che a vent’anni dalla sua pubblicazione, meriterebbe davvero ancora di essere tradotto in Italia.
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[1] Pierre-André Taguieff, L’effacement de l’avenir, Paris, Galilée, 2000, 248 p.
[2] Sia Liquid modernity risalente allo stesso anno 2000 sia The Individualized Society uscito nel 2001 saranno tradotti in italiano, ma solo due anni dopo, nel 2002
[3] Su Sorel ho scritto una tesi di laurea nel 1984 parzialmente pubblicata una decina di anni dopo in appendice agli Atti di un convegno da me organizzato a Lugano su La Voce e l’Europa, in cui Tagueff analizza il rapporto fra nazionalismo e cosmopolitismo. L’interesse comune per l’autore de Le illusioni sul progresso e delle Considerazioni sulla violenza mi ha consentito di frequentare assiduamente per almeno sei anni, a partire dal 1982 Pierre André Taguieff, sino al mio rientro in Italia nel 1988.
[4] Avatar nell’originale francese. Mi sia concesso di tradurre questo termine nella sua accezione di matrice induista, sebbene il termine “avatar” risentisse naturalmente già all’epoca con l’esplosione di Internet, del suo nuovo significato nel nascente mondo della Rete di rappresentazione virtuale e grafica di un visitatore di un sito web.
[5] Va detto che la conoscenza da parte di Taguieff dell’Italia rimane limitata e non possiamo certo attribuirgli capacità premonitrici di movimenti come quello ostile ai vaccini No Vax, ostili all’alta velocità NO TAV né della discesa in piazza di orde di populisti grillini al grido di “vaff…” che nel giro di pochi anni hanno portato in Italia movimenti come quello pentastellatio al vertice del governo nell’ultima legislatura
[6] Dibattito aperto da questo editoriale di Massimo Cacciari, “Demagogia come arte di governo”, uscito su La Stampa il 18 giugno 2020
[7] Al contrario possiamo dire che gli enarchi nel caso del loro più eclatante “primo della classe” oggi occupano persino con Emmanuel Macron la posizione apicale nella Repubblica semipresidenziale d’Oltralpe. Scatenando una nuova ondata di proteste vandeane dalle province come quella dei Gilets Jaunes contro i privilegi della casta parigina.
Bruno Somalvico, storico dei media, si è formato all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi dove si è laureato nel 1984 con una tesi su Georges Sorel et ses corréspondants italiens (1895-1911). E’ stata parzialmente ripresa e pubblicata in appendice alla pubblicazione degli atti di un Convegno su La Voce e l’Europa. Cfr. Diana Ruesch, Bruno Somalvico (a cura di), La Voce e l’Europa. Il Movimento fiorentino de La Voce: dall’identità culturale italiana all’identità culturale europea, Roma, Presidenza Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria, 1995, 805 p. Si vedano “Georges Sorel e la sua seconda patria: considerazioni preliminari” e “Lettere di Georges Sorel a Giuseppe Prezzolini. Parte prima: 1908-1910 (con avvertenza, informazioni e note del curatore)”. Con Taguieff ha realizzato un ciclo di programmi nel 1984 per la Radio della Svizzera Italiana andati in onda il 29 luglio e il 13 agosto dedicati a La Nuova Destra intellettuale in Francia: il GRECE e il Club de l`Horlôge (con la partecipazione anche di Alain de Benoist e Louis Pauwels) Per lo stesso Taguieff curatore di un numero monografico sulla Rivoluzione Francese ha pubblicato un’intervista ad Albert Soboul realizzata per un programma da lui curato con Serge Cosseron per la Radio della Svizzera Italiana: “Albert Soboul, entretien inédit. Présentation et étude bibliographique”, Cahiers Bernard Lazare, (119-120), numero speciale a cura di Pierre André Taguieff, Parigi, luglio-dicembre 1987, pp. 25-58. Somalvico ha fatto conoscere Taguieff al pubblico italiano segnalando un testo poi rifuso nel 1988 nell’introduzione al primo saggio sul razzismo, che lo ha reso celebre, tradotto solo sette anni dopo dal Mulino: cf. Pierre André Taguieff, “Un modello teorico del razzismo”, Mondoperaio, XL (6), giugno 1987.
Pierre-André Taguieff, è un sociologo, filosofo e storico delle idee francese direttore di ricerca al Centro Nazionale francese per la Ricerca Scientifica e docente all’Istituto di studi politici di Parigi. Autore di numerosi saggi politici, di storia delle idee, sociologici e teoria della falsificabilità, i suoi studi hanno riguardato anche il razzismo, l’antisemitismo e l’analisi delle ideologie legate all’estrema destra; è noto anche per i suoi lavori pionieristici sul populismo, sulla cosiddetta “Nuova Destra” e sul Fronte Nazionale di Jean-Marie Le Pen. Il suo pensiero filosofico spazia dall’anarco–situazionismo alle teorie nazionalistiche. Qualificatosi repubblicano di sinistra e descritto come «socio-liberal conservatore», le sue prese di posizione e i suoi lavori (in particolare quelli, citati, sulla “Nuova Destra” e la “neo-giudeofobìa” lo hanno posto al centro di controversie mediatiche. È anche impegnato in prima persona nella lotta «contro ogni razzismo», per combattere la quale egli sostiene sia necessaria una riflessione rigorosa e una definizione inequivocabile della posta in gioco. Nel 2002 Taguieff fa parte della rosa di esperti della commissione, istituita dall’allora ministro francese per la cultura Jack Lang, incaricata di indagare su presunti casi di negazionismo verificatisi nell’Università Jean-Moulin di Lione Nel 2004 Taguieff riceve l’incarico di redigere un rapporto ufficiale sulla situazione dell’antisemitismo nella scuola pubblica francese. Nel 2005 solleva polemiche la sottoscrizione di alcuni intellettuali, tra cui lo stesso Taguieff, di un «appello contro il razzismo anti-bianchi»; tale appello, che vede tra i firmatari anche il giornalista e filosofo ebreo francese Alain Finkielkraut e il fondatore di Medici Senza Frontiere Bernard Kouchner, tendeva a stigmatizzare le aggressioni subìte dai francesi di pelle bianca a opera di immigrati durante manifestazioni e tumulti avvenuti nei due anni precedenti, e a qualificarle come atti di razzismo, in maniera simmetrica a quello subìto da immigrati e persone di colore a opera di quelle di pelle bianca. Critico nei confronti sia della destra che della sinistra e, a sua volta, da entrambi gli schieramenti politici criticato, Taguieff si definisce «migliorista» e ha spiegato la sua posizione politica in tali termini: «Di sicuro la democrazia liberale non è perfetta, però è perfettibile, ed è anche l’unico sistema politico da perseguire; va difesa perché è l’unico sistema che permetta agli individui la propria libertà d’azione e di pensiero» In Italiano sono uscite le sue opere principali: La forza del pregiudizio. Saggio sul razzismo e sull’antirazzismo, Bologna, il Mulino, 1994 [ed. originale francese 1988]; Sulla Nuova Destra. Itinerario di un intellettuale atipico, Firenze, Vallecchi, 2003 [1994], Il razzismo. Pregiudizi, teorie, comportamenti, Milano, Raffaello Cortina, 1999 [1998], Il progresso. Biografia di un’utopia moderna, Troina, Città Aperta, 2003 [2001]; Cosmopolitismo e nuovi razzismi. Populismo, identità e neocomunitarismi, Milano, Mimesis, 2003[2002]; L’illusione populista, Milano, Bruno Mondadori, 2003 [2002], L’antisemitismo, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2016 [2015].