Pubblichiamo di seguito il contributo di Giampiero Gramaglia, giornalista, alla rivista DEMOCRAZIA FUTURA, promossa dal gruppo di “Infocivica 4.0” e diretta da Giampiero Gramaglia, a cui seguirà quotidianamente la pubblicazione di tutti gli altri articoli.
Terrificante! Nei giorni del ricovero in ospedale del presidente Donald Trump, positivo per nemesi al coronavirus da lui spesso snobbato e minimizzato, Twitter, investita dai cinguettii funerei contro il magnate, ha annunciato che rimuoverà i messaggi che auspichino o augurino “a chiunque morte, malattie letali, gravi lesioni fisiche”. Gli autori di post che violino questa policy della piattaforma non saranno però sospesi.
Terrificante? Nel Paese dei ‘mortacci tua’ e dei ‘va a morì ammazzato’, non ci si può scandalizzare troppo per degli eccessi polemici e verbali (seppur scritti sulla pietra del web). Ma è terrificante; primo, che gli auguri di morte diventino valanga; secondo, che siano considerati un peccato veniale, meritino il cartellino giallo del post rimosso e non il cartellino rosso dell’account almeno sospeso, se non cancellato.
La campagna elettorale di Usa 2020 vede i social protagonisti – non è una novità: lo sono sempre più dal 2008, da quando Barack Obama ne testò per primo l’utilità nella comunicazione politica -, ma in una luce e con un colore molto diversi dal 2016: una ricerca del Washington Post lo prova.
La loro pervasività e, nel contempo, la loro penetrabilità costituiscono un’opportunità e una sfida, per la nostra democrazia prossima ventura: strumento e luogo senza limiti di dibattito e confronto, di conoscenza e approfondimento; ma anche strumento e luogo di condizionamento e manipolazione, calamita di ‘falsi profeti’ e terreno per i ‘cavalli di Troia’ della disinformazione e – lo dicono i guru dell’intelligence – dello spionaggio. Ma opporsi ad essi per paura dei danni che possono fare sarebbe come demonizzare la stampa nel Cinquecento perché i libri, oltre che divulgare e accelerare la bellezza della conoscenza, possono diffondere e propagare l’orrore della falsità.
La ‘guerra dei media’ del XXI Secolo è politica e geo-politica, scontro tra visioni della società – chiusura contro apertura – e ambizioni di predominio – tecnologico e commerciale più che sociale e militare -, nei segni dei facili dualismi élite / popolo, sovranismo / multilateralismo, presentismo / prospettiva, che talora s’intrecciano in modo contraddittorio e provocatorio e dove i guasti peggiori li fanno gli uomini e non i robot (che ne moltiplicano l’impatto, ma non ne sono – ancora? – all’origine).
In misura diversa, Facebook e Twitter – più di Instagram, un po’ marginale in questa fase – hanno dovuto ammettere una loro responsabilità nei contenuti pubblicati: più interventista, fors’anche perché più coinvolto politicamente e più umanista, Jack Dorsey; più riluttante, fors’anche perché più uomo d’affari che filantropo, Mark Zuckerberg.
I social, soprattutto Facebook, sono stati e restano il veicolo privilegiato della disinformazione e delle ‘fake news’, mentre Donald Trump continua ad attribuirle ai media più accreditati, New York Times e Washington Post, le grandi tv generaliste americane e la Cnn (il fatto è che il magnate presidente identifica le fake news con le notizie a lui non gradite). E l’apparentemente innocuo TikTok diventa motivo di litigio – fittizio? Una messa io scena? – tra Usa e Cina, una sorta di Poitiers o di Lepanto dei Tempi Moderni.
Il social di Mark Zuckerberg, che a inizio campagna pareva meno attento di Twitter a non veicolare contenuti politicamente sensibili e falsi, sta intensificando i controlli e gli interventi e ha appena annunciato che, il 3 novembre, a urne chiuse, oltre a vietare post con dichiarazioni di vittoria premature, vieterà inserzioni che mirino a delegittimare il risultato elettorale, ad esempio adducendo brogli senza l’avallo di prove. Sarà così vietato partire da frodi isolate per contestare l’esito globale o sostenere che un metodo di voto legale – tipo quello per posta – è “intrinsecamente fraudolento o corrotto”. Come fa, sistematicamente, Trump.
In una sua inchiesta, il Washington Post documenta il contributo che media di destra via Facebook diedero nel 2016 alla elezione di Trump e constata, dati alla mano, che “il controllo della destra sulla piattaforma s’è ulteriormente accresciuto” negli ultimi quattro anni: dopo il primo dibattito, martedì 29 settembre, tra Trump e il suo rivale Joe Biden, nove dei dieci post più visti su Facebook – e 20 dei primi 30 – erano di destra. Nel 2016, dopo il primo dibattito tra Trump e Hillary Clinton, la situazione era l’opposto: solo otto su 30 erano di destra. “Moltissimi americani che ricavano principalmente le loro notizie da Facebook – scrive il Washington Post – vivono in un ecosistema mediatico in cui l’esito del dibattito è chiaro: Trump ha schiacciato Biden”, mentre tutti i sondaggi a caldo fra chi aveva effettivamente seguito il dibattito davano esito opposto. I dati su cui si basa il quotidiano vengono da CrowdTangle, uno strumento analitico di Facebook.
I cittadini, o meglio gli elettori – negli Stati Uniti, i due insiemi non sono sovrapposti – intuiscono, o percepiscono, il pericolo per la democrazia che i social media, con i loro effetti moltiplicatori e distorsivi, rappresentano: il 52% dei cittadini statunitensi registrati per il voto ritiene che sarebbe meglio chiudere tutti i social media nella settimana delle elezioni presidenziali. L’Election Day sarà il 3 Novembre -. Lo dice un sondaggio della società di ricerca Gqr svolto per Accountable Tech: sono stati sentiti mille persone, all’incirca metà democratici e metà repubblicani.
Il 79% dice che i social media dovrebbero fare di più per proteggere la democrazia, cioè – e può apparire paradossale – introdurre più controlli, più verifiche, più ‘censura’: sospendere e/o limitare la libertà d’espressione, che è licenza d’espressione, per meglio tutelare la democrazia! un baratto che quattro cittadini responsabili su cinque sono disposti a fare. “C’è un livello di preoccupazione sorprendente per il coinvolgimento dei social media in queste elezioni. La maggioranza ha davvero detto che sarebbe meglio chiudere i social – conta pure come la questione è stata posta. ndr -. Questo non vuol dire che lo faremo, ma è un chiaro messaggio per la Silicon Valley”, ha dichiarato ad Axios Jesse Lehrich, fondatore di Accountable Tech.
Secondo il sondaggio, il 62% degli intervistati afferma di non essere sicuro che i social media possano prevenire la disinformazione collegata alle elezioni e il 91% ritiene che dovrebbero darsi più da fare per prevenirne la diffusione. L’82% degli intervistati, infine, ritiene utile ‘etichettare’ o comunque segnalare gli account che diffondono false informazioni e l’85% accetta il blocco di post che incitano alla violenza o contengono informazioni palesemente errate o distorte.
La politica: DeepFake anti-Biden
Quando i gestori dei social sonnecchiano,o si voltano a guardare altrove, per non perdere traffico, le fake news prolificano. Dopo il DeepFake di Joe Biden che s’appisola durante un’intervista, che aveva permeato i social tra agosto e settembre, ecco la storiella che l’ex vice di Barack Obama, candidato democratico alla Casa Bianca, aveva un auricolare con cui riceveva input su come rispondere alle domande durante il dibattito con Trump (il primo della serie, il 29 settembre).
Nulla lo prova, ma la voce gira in rete da prima del duello in tv di Cleveland e vien pure rilanciata dagli spot della campagna di Trump, che invita la gente a “controllare le orecchie di Joe” e s’interroga “perché Sleepy Joe non accetta un’ispezione anti-auricolari”, oltre che il controllo anti-dumping – questa è un’idea tutta del magnate presidente -.
Nella ricostruzione del Washington Post, tutto è partito dal tweet di un giornalista del New York Post: citando una fonte anonima, ipotizzava che Biden volesse dotarsi di un auricolare durante il dibattito, per non restare letteralmente “senza parole”. Il quotidiano osservava che la storia di Biden con l’auricolare, per quanto falsa, continuava a essere popolare su Facebook dopo il dibattito, senza che il social ne segnalasse in alcun modo l’inattendibilità.
Non è l’unico esempio di fake news su salute e prontezza del candidato democratico. Su TikTok, quattro video sgranati in cui si afferma che Biden aveva durante il dibattito un filo per “imbrogliare” hanno avuto nelle 24 ore successive oltre mezzo milione di visualizzazioni, dice Media Matters, gruppo di sinistra che monitora i media. Uno dei video mostra Biden con la mano dentro la giacca, un altro mette una freccia sulla cravatta di Biden, ma nessuno fornisce alcuna prova visiva dell’ipotesi che l’ex vice presidente indossasse un dispositivo elettronico. L’app dei mini-video, contattata, s’è impegnata a rimuovere il post, ma l’ha fatto solo a potenziale esaurito.
La salute: Trump motore della disinformazione sul coronavirus
Il presidente Trump, secondo uno studio della Cornell University, di cui dà notizia Elida Sergi sull’ANSA, è il principale responsabile della diffusione di notizie non verificate sul coronavirus: per gli autori della ricerca, le menzioni del magnate presidente costituiscono quasi il 38%, cioè quasi i due quinti, di tutte “conversazioni di disinformazione” online complessive sul nuovo virus Covid-19.
Un team della Cornell Alliance for Science ha valutato 38 milioni di articoli sui media tradizionali in lingua inglese in tutto il mondo tra il primo gennaio e il 26 maggio di quest’anno, coprendo Usa, Gran Bretagna, Irlanda, India, Australia, Nuova Zelanda e altre nazioni africane e asiatiche.
Sono stati identificati 522.472 articoli che hanno riprodotto o amplificato disinformazione relativa alla pandemia, ciò che l’Organizzazione mondiale della Sanità ha chiamato “infodemia”; e sono stati classificati in 11 sotto-temi principali, che vanno dalle teorie del complotto agli attacchi al ‘virologo in capo’ negli Usa Anthony Fauci, all’idea che il virus sia un’arma biologica scatenata dalla Cina.
L’argomento di gran lunga più popolare sono le “cure miracolose”, trattate in 295.351 articoli, più degli altri 10 argomenti messi insieme. I ricercatori della Cornell hanno notato che i ‘suggerimenti’ del presidente Trump hanno portato a picchi importanti, a partire da un briefing del 24 aprile in cui il presidente suggerì iniezioni di disinfettante – leggasi candeggina – (proposta che, quando montarono le polemiche e gli sberleffi, derubricò a battuta).
Picchi simili sono stati osservati quando Trump ha promosso trattamenti non certificati scientificamente come l’idrossiclorochina. Ad agosto, il magnate venne ‘censurato’ da Facebook e Twitter, per un post in cui affermava che i bimbi sono “quasi immuni” al Covid-19. “Quando si parla dell’epidemia di coronavirus – scrive il direttore di Science Herbert Holden Thorp – le parole di Trump non potrebbero essere più distruttive. Quando gli scienziati hanno cercato di dirgli che stava arrivando una nuova ondata, l’ha chiamata ‘la loro nuova bufala’” E neppure l’essersi ammalato gli ha fatto cambiare idee e atteggiamento, più simile in questo al presidente brasiliano Jair Messias Bolsonaro che al premier britannico Boris Johnson.
Trump contro i social: quando l’untore diventa censore
Siamo sul terreno dei paradossi. Irritato perché prima Twitter e poi Facebook gli segnalano come fuorvianti e/o potenzialmente dannosi suoi ‘cinguettii’ e post, il magnate presidente ha più volte minacciato, negli ultimi mesi e ancora di recente, di “abrogare la Sezione 230” del Communications Decency Act, la legge che permette alle piattaforme online di non essere considerate responsabili per i contenuti pubblicati dagli utenti.
Dunque, per colpire i social il presidente vorrebbe abrogare o limitare una protezione legale di cui godono, equiparandone o avvicinandone lo statuto a quello dei media, che possono essere chiamati a rispondere di quello che pubblicano. Personalmente, posso pure essere d’accordo, anzi lo sono. Ma forse Trump non si rende conto che un’iniziativa del genere moltiplicherebbe i controlli, anziché limitarli, e farebbe cestinare molti suoi tweet e post.
Il match Trump vs Twitter è un apparente anomalia e una sommatoria di contraddizioni, che va avanti da prima dell’estate – inizia tra la fine di maggio e i primi di giugno -: il magnate presidente parte lancia in resta contro il social network che è stato e resta la sua palestra preferita di ogni sorta di nefandezza para-informativa; il ‘sito dei cinguettii’ decide, finalmente, di ribellarsi alla bulimia di fake news presidenziale; Facebook sta con Trump contro Twitter, fin quando il magnate non lascia intendere che potrebbe colpire tutti i social in modo indiscriminato (e forse neppure troppo consapevole); e infine, una battaglia avviata dalla Casa Bianca in nome della libertà d’espressione garantita dalla Costituzione e negata al presidente – falso!, nessun suo tweet è stato oscurato – rischia di sfociare in una limitazione della libertà d’espressione collettiva.
Troppa carne al fuoco? Forse. Tanto più che la ‘guerra di Twitter’ potrebbe essere, in partenza, solo un diversivo: scoppia mentre gli Stati Uniti sono alle prese con una pandemia che aveva fatto oltre 100 mila vittime e 1.750.000 contagiati – oggi, sono oltre 210 mila vittime e oltre 7 milioni e mezzo di contagiati: nessun Paese al Mondo fa peggio –; e quando l’uccisione d’un nero a Minneapolis scatena tensioni razziali e violente proteste che, quattro mesi dopo, ancora scuotono l’Unione. Forse siamo, almeno all’inizio, nella serie ‘chiodo scaccia chiodo’. Ma, poi, il conflitto s’incrosta: a farlo cessare sarà forse l’esito del voto del 3 novembre, con il ritorno a una dialettica politica meno ossessiva e più rispettosa dei dati e della verità.