Pubblichiamo di seguito il contributo di Giorgio Zanchini, giornalista, saggista e conduttore radiofonico, alla rivista DEMOCRAZIA FUTURA, promossa dal gruppo di “Infocivica 4.0” e diretta da Giampiero Gramaglia, a cui seguirà quotidianamente la pubblicazione di tutti gli altri articoli.
Il titolo di questo breve intervento rimanda all’esperienza personale di chi scrive. Un giornalista, soprattutto radiofonico, formatosi nel Novecento, in un ambiente mediale del tutto diverso da quello odierno.
Una formazione, quella novecentesca, molto simile a quella dei secoli precedenti, fatta di un’offerta perimetrabile, gerarchica, ordinabile, nella quale la selezione era operata quasi soltanto da mediatori riconosciuti. Con la rivoluzione digitale quell’assetto si è molto indebolito: sono mutate gerarchie, ordini, e selezione e verifica e scelta sono operazioni molto più disordinate e inintenzionali di pochi anni prima.
Il giornalista per così dire tradizionale ha vissuto con un certo affanno la grande trasformazione, è stato sballottato dalle spinte dell’innovazione tecnologica, e ha assistito con stupore alle torsioni che ha subito il percorso della notizia.
E’ cambiato tutto, tutta la filiera, gli attori e i fruitori, siamo ormai tutti immersi in un mondo-flusso segnato dalle notifiche sugli smartphone, siamo tutti parte di un sistema ibrido che si sta assestando in un oligopolio che preoccupa chiunque abbia a cuore la qualità delle nostre democrazie, la formazione dell’opinione pubblica, il ruolo di controllo dei poteri che il giornalismo deve avere.
L’accelerazione dei processi determinati dalla rivoluzione digitale e le nuove tendenze in atto
Ecco, l’impressione di questi lunghi mesi è che il Covid19 abbia accelerato i processi determinati dalla rivoluzione digitale, accentuando spinte e torsioni, acuendo tendenze e rischi.
Altri interventi in questo primo numero di Democrazia futura cercano di fotografare i pericoli che stiamo correndo, penso in particolare agli articoli di Giampiero Gramaglia, di Massimo De Angelis, di Erik Lambert.
Io vorrei provare a raccontare l’esperienza vissuta da un giornalista del servizio pubblico radiotelevisivo, aggiungendo alcune riflessioni che quell’esperienza ha suscitato e che credo possano fornire un piccolo contributo al quadro generale che ho sintetizzato poche righe fa. Prima di farlo vorrei però premettere una rapida fotografia di quello che è accaduto ai consumi mediali durante il Covid.
Se dovessi sintetizzare all’estremo direi che sono usciti rafforzati soprattutto gli Over-the-Top (Ott), i giganti della rete, in particolare quelli che oggi vengono definiti Gafam (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft), con una grande crescita nell’uso di app e social. Si è rafforzato il consumo di televisione, più incerto il quadro che riguarda la radio, e malconcia la stampa tradizionale, e in particolare la stampa locale. Su tutti è pesato il crollo della pubblicità, che ha messo in crisi migliaia di aziende editoriali. A pagare il prezzo più alto sono stati soprattutto, ma non solo, i giornalisti.
Nel cuore del lockdown, comprensibilmente, sono esplosi i consumi di informazione digitale e di televisione, di serie tv e videogiochi, mentre ha faticato molto la carta stampata. Una volta usciti dal confinamento alcune tendenze si sono dimostrate durevoli, altre meno. A partire da metà maggio il consumo di news ha cominciato a calare, c’è stata una sorta di progressiva disintossicazione dopo l’esperienza di consumo intensissima dei mesi centrali della prima fase della pandemia.
In televisione ancora oggi i dati continuano a restare superiori ai mesi e all’anno precedente, ma a giugno c’era ancora un milione di persone in più di fronte allo schermo rispetto al giugno 2019. A far segnare i dati migliori restano i telegiornali, a conferma di un fenomeno forse scontato, e cioè l’hunger for information, la fame di notizie, attivata quasi naturalmente da un evento che tocca la salute e persino la sopravvivenza. Anche la radio – che almeno qui in Italia durante il lockdown aveva subito perdite del 17% soprattutto per via del crollo dell’ascolto via autoradio – è tornata sui dati pre pandemia, con una novità non secondaria. L’ascolto via podcast ha ripreso forza ed è probabilmente destinato a crescere ancora.
Durante il confinamento molte testate, anche italiane, hanno investito sul podcast, con prodotti che cominciano ad entrare nelle abitudini delle persone.
Quanto ai quotidiani prosegue purtroppo il calo di vendite. Secondo i dati Ads di giugno rispetto al giugno 2019 sono state perse nelle vendite in edicola altre 480 mila copie (-24,3%), nonostante il blocco degli spostamenti sia venuto meno. Gli unici giornali in controtendenza sono stati La Verità (+17,7%), Il Fatto Quotidiano (+7,4%), Libero (+6,1%) e Il Giornale (+4,9%). Migliori i dati delle versioni digitali: +27,% nel loro complesso, con ItaliaOggi a +204%, La verità a +130,4% e Il Fatto Quotidiano a +119,2%, ma non scordiamo che i numeri delle copie digitali, specie rispetto ad altri mercati, restano bassi e gli introiti pubblicitari anche. L’online resta prospero.
Si conferma la forza delle grandi piattaforme americane – e l’andamento dei titoli azionari parla da sé -, e i siti di informazione continuano a registrare buoni dati, più statici rispetto a marzo e ad aprile, ma comunque in crescita rispetto allo scorso anno. I siti d’informazione a luglio hanno fatto registrare un +5% rispetto al luglio 2019.
Come è cambiata la vita di redazione
Ma veniamo alla vita di redazione. Il Covid ha comportato un incremento fortissimo dello smart working, il che ha significato un’accelerazione inevitabile e persino brutale nell’uso delle tecnologie della comunicazione. Molte redazioni e molti giornalisti sono riusciti a fare in sostanza lo stesso lavoro di prima, più o meno con la stessa efficacia, attraverso un uso intenso e collaborativo delle tecnologie.
In televisione, tra redattori, producer, filmaker, montatori, grazie alla rete e ai programmi sui dispositivi elettronici si è potuto operare da remoto, a cominciare dalle riunioni per finire con la rifinitura di un servizio. Alla radio, tra smart working, distanziamento personale, protocolli di sanificazione, e soprattutto dispositivi elettronici, il luogo di lavoro, le redazioni, gli studi sono cambiati sotto ai nostri occhi.
Dalla Bbc sino alle radio più casalinghe si sono costruite intere trasmissioni con il conduttore a casa, attraverso un tablet e app come Luci, o con il codec, o il quantum, e gli inviati con l’Ipad, o con il cellulare e app di trasmissione sonora. Molto simile quello che è accaduto nelle redazioni dei quotidiani o delle riviste. Whatsapp e i servizi di teleconferenza sono diventati gli strumenti centrali delle relazioni e delle comunicazioni, persino tra le persone in presenza, autocontenute nella scrivania, con scelta dei titoli, delle fotografie, delle gerarchie che si inseguivano e si inseguono a distanza sugli smartphone.
Lavorare in questo modo comporta ovviamente conseguenze.
Tra le più significative la diminuzione dei momenti di condivisione di idee e proposte, e la verticalizzazione del processo decisionale. Il distanziamento sociale, la riduzione delle presenze del personale ha provocato il diradamento delle riunioni, dei luoghi in cui si condividono notizie, approcci, spunti, proposte. Al lavoro, presenti fisicamente, sono rimasti soprattutto i gradi alti del giornale. Il risultato è che si finisce per decidere in pochi, senza appunto grandi scambi e confronti, con una accentuazione del comando da eseguire, del processo da portare a termine il prima possibile.
Le conseguenze di questo cambiamento e il confronto fra editori e piattaforme
Il combinato disposto dello snellimento delle redazioni – che solo in qualche caso sono tornate agli organici precedenti la pandemia – e della crisi economica che ha pesantemente colpito l’industria editoriale – con il colpo più pesante inferto dal crollo della pubblicità – ha purtroppo prodotto tagli, stati di crisi, licenziamenti, riduzione dei salari, chiusure.
In nordamerica sono state accelerate operazioni di fusioni e consolidamento, tagli e maggiore controllo dei capitali azionari da parte di hedge fund e private equity, molti quotidiani locali cartacei hanno dovuto cessare le loro pubblicazioni e anche grandi gruppi come Condé Nast, Buzzfeed, Vox Media hanno tagliato centinaia di posti di lavoro. Chi è riuscito a sopravvivere o persino a rafforzarsi durante il Covid19 sono i gruppi che negli anni passati hanno puntato sul modello digital first e sugli abbonamenti, prevedendo l’inarrestabile crisi degli investimenti pubblicitari.
Alcuni quotidiani o riviste, dal Guardian all’Atlantic e più di tutti il New York Times, hanno sfruttato efficacemente il bisogno di informazione che si è manifestato in questo periodo, e hanno fidelizzato lettori.
Per i quotidiani solo cartacei, o che basano il loro modello economico principalmente sulle vendite su carta, la situazione è molto più difficile, specie per i quotidiani locali.
In Europa la crisi ha indebolito ulteriormente un modello economico reso molto fragile dalla rivoluzione digitale, e che si è adattato con più difficoltà del mondo anglosassone alle sfide della Rete. Anche se in questo periodo il giornalismo ha visto crescere il suo credito di fiducia presso i cittadini, con un oggettivo aumento della richiesta di informazioni e approfondimenti, resta il problema del finanziamento. Il grosso degli introiti continua ad arrivare dalla pubblicità e se la pubblicità subisce un tracollo, come durante il Covid19, le difficoltà possono diventare inaggirabili. La vendita di copie e gli abbonamenti rischiano di non essere sufficienti, specie se il pubblico come in Italia è disabituato a pagare per l’informazione e aggira i paywall accontentandosi di un’offerta spesso più povera.
Pochi sono riusciti a spostare una parte sensibile delle entrate dalla pubblicità agli abbonamenti, anche se tra gli esempi positivi di questi ultimi mesi va segnalato un quotidiano dalla storia importante come Le Monde. In Italia purtroppo gli editori pagano ritardi di anni, i giornali cartacei vengono da lunghi anni di declino e il Covid19 non ha fatto che accentuare la pendenza.
In tutto il mondo occidentale – e persino negli Stati Uniti – si sta irrigidendo il confronto tra gli editori tradizionali, che sono poi i veri produttori di informazione, e le grandi piattaforme che beneficiano dei contenuti prodotti da altri ma solo raramente riconoscono loro un corrispettivo.
L’obiettivo dei primi è quello di imporre ai GAFAM di contribuire economicamente alla filiera dell’informazione e anche rompere il duopolio di fatto Google/Facebook nel digital advertising business. Si torna qui al nodo evidenziato all’inizio. Si può accettare un’offerta informativa in cui a parte il servizio pubblico – sottoposto peraltro anch’esso a tagli e discussioni – ci sono pochi e precari editori che hanno a cuore il ruolo della libera stampa, accanto ai colossi di Big Tech che hanno ormai definito il paesaggio e possono diventare i proprietari e i decisori di tutta la filiera?
Negli anni a venire il confronto/scontro sarà molto duro, ed è bene che i decisori politici e l’opinione pubblica prendano coscienza della centralità della partita in corso e dell’importanza di non abbandonare l’editoria tradizionale ad un confronto impari con le tech companies.
Sarà inoltre inevitabile una riflessione generale sul finanziamento pubblico all’editoria e sul rapporto tra Stato e mercato.