29 luglio 2021
Nel maggio 2020, in molti paesi europei si stava passando alla “fase 2”, quella della progressiva e responsabile riapertura, dopo il loockdown. La Svezia aveva messo in atto una strategia diversa dagli altri Paesi contro il virus Covid 19, rinunciando alla chiusura generale delle attività sociali, o meglio con un loockdown meno rigido, basato più su logiche di mitigazione che di contenimento.
Un modello che, secondo le tesi dell’epidemiologo Anders Tegnell, confidava sulla capacità della popolazione di resistere all’attacco dell’infezione, di modo che, una grande proporzione dei suoi membri, fosse in grado di acquisire l’immunità. La malattia insomma si può superare grazie alla produzione di anticorpi, senza vaccinazione. Questo esperimento venne dapprima elogiato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, tramite il capo del Programma di emergenze sanitarie Mike Ryan e riportato dalle maggiori agenzie di stampa, come un modello da seguire. In seguito le cose sono andate diversamente. Il modello non è del tutto peregrino, solo che si è visto che non lo si può attuare in un unico paese e comporta comunque rischi non indifferenti.
A quella data in Svezia c’erano quasi 23.000 contagiati, di cui 19.000 attivi e il numero di morti era di poco inferiore ai 3.000. Attualmente, nel luglio 2021, i morti in Svezia sono triplicati e i contagi sono arrivati a 85.000. Queste cifre sono inferiori a quelle di Italia, Spagna e Francia ma sono più alte di Grecia e Portogallo, paesi che hanno una popolazione simile alla Svezia (10 milioni di abitanti) e molto più alte di quelle degli altri stati scandinavi.
Anders Tegnell spera ancora che si sviluppi una “immunità di gregge che blocchi l’epidemia mentre altri scienziati parlano apertamente di incoscienza e che potrebbe verificarsi a breve una situazione molto grave, specialmente nelle periferie. “Il disastro è dietro l’angolo e ci esploderà in faccia” ha detto Cecilia Söderberg-Nauclér, professoressa del Karolinska Institute di Stoccolma, una delle principali istituzioni mediche. Nonostante sia tacciata di essere un’idiota e una pazza allarmista la professoressa Söderberg-Nauclér continua la sua battaglia di controinformazione e gli ultimi dati sembrano darle ragione. “Potremmo avere quasi mezzo milione di infetti in poche settimane. Il virus si espanderà in tutto il paese se non verranno imposte misure di contenimento severe”. Björn Olsen dell’Università di Uppsala, teme che si stia per sfiorare una tragedia con diverse migliaia di morti.
Il mio viaggio a Stoccolma serve per andare a vedere da vicino quanto è accaduto. In piena ripresa sanitaria ed economica di gran parte dei paesi contaminati dal Coronavirus. Siamo in estate, con un clima insolitamente caldo per questa latitudine. L’aereo della Scandinavian Airlines tocca terra sulla pista dell’Aeroporto Internazionale di Arlanda, uno dei quattro scali della capitale svedese. Sono le otto di sera ma il sole è ancora alto nel blu limpido del cielo nordico. La luce dura quasi 18 ore in questa stagione, un fenomeno che a noi mediterranei affascina non poco. L’area metropolitana ospita 2 milioni e mezzo di abitanti, un 23% circa della intera popolazione del paese, su quattordici isolotti tra il Mar Baltico e il lago Mälaren. Dall’alto la città appare totalmente accomodata tra le insenature e integrata con le acque della baia Riddarfjärden, che circondano e intersecano i quartieri. Non voglio dire la fatidica frase delle guide turistiche, in questi casi (Venezia del nord), perché odio questi paralleli e anche perché Venezia non è paragonabile con nessuna città che interagisca con le acque. Il controllo passaporti non c’è. Io arrivo da Roma e la Svezia fa parte della UE dal 1° gennaio 1995. Non ha mai adottato l’Euro, pur essendosi impegnata a farlo “non appena ne abbia i requisiti necessari.” Tuttavia c’è un controllo dei passeggeri provenienti da altri paesi, anche europei, discreto ed efficiente, per quanto attiene alle condizioni generali di salute. È richiesto un “passaporto sanitario” per chi abbia sviluppato gli anticorpi o non abbia nessun sintomo. Il solito termolaser misura casi di febbre eventuali. L’“app tracciante” non è obbligatoria. Potrei prendere un bus della Flybussarna ma preferisco una maggiore distanza tra passeggeri e scelgo uno dei treni dell’Arlanda Express, che collega l’aeroporto con la città. Scendo in un luogo che sembra un hangar di un altro aeroporto, dove tutto è ampio, ordinato, sobrio. Se non ci fossero i tabelloni con le partenze e gli arrivi dei treni, potrebbe essere un centro commerciale, invece è la Stazione Centrale. Mentre cammino per questi corridoi più simili a piazze, penso a questa estesa ed efficiente rete di trasporti pubblici, con tre linee di metropolitana (Tunnelbana), segnalata con una grande T nera ad ogni stazione. Sempre tre sono le linee di ferrovia suburbana e tre le linee di metro-tranvia. Due le ferrovie locali, la Roslagsbanan e Saltsjöbanan. Tutte si chiamano come i mobili dell’Ikea. Penso quanto sia facile la diffusione di contagi grazie a questi collegamenti rapidi ed estesi, che permettono di raggiungere i quattro paesi scandinavi, compresa la Danimarca, tramite i traghetti e il ponte di Øresund (o Öresund), una tratta stradale e ferroviaria di 15,9 km che collega le città di Copenaghen e Malmö, realizzata tramite tunnel sottomarino e non, congiunti in un’isola artificiale appositamente creata.
Un taxi nero anonimo, con conducente polacco, mi lascia in Södra Blasieholmshamnen 2, a Norrmalm, in pieno centro di Stoccolma, davanti a un palazzo in stile, dove ha sede lo Small Luxury Hotel Lydmar. Si trova di fronte al porto di Strömkajen, a 100 metri da dove partono i traghetti per l’arcipelago.
L’edificio è incantevole e le camere confortevoli, con colori rassicuranti e classici, pavimenti in legno e alti soffitti con travi anch’esse in legno, grandi termosifoni e molti divani. I piumoni sui letti, adesso fuori luogo come i caminetti, mi ricordano che siamo nel profondo nord. Ci sono libri quasi ovunque ma soprattutto nelle sale apposite, con luci soffuse e un impeccabile servizio di camerieri. In bagno trovo dei prodotti di alta moda, molto graditi. Il ristorante propone piatti della cucina europea, tra Francia e Italia, per non sbagliare. Di questa stagione si può pranzare in terrazza, se lo si chiede. Con una passeggiata di 10 minuti vado a visitare i numerosi negozi e locali della zona di Stureplan, qualcuno è chiuso. Il concierge si è reso disponibile per darmi consigli sui luoghi da visitare e le attrazioni locali. La lista sarebbe lunga ma quasi nessuna attrazione mi ha convinto.
Per cercare di capire meglio cosa sia successo in Svezia, ho fissato, per la mattina successiva, un incontro con Lena Einhorn, che gentilmente mi aspetta nella hall dell’albergo. Lena è una bella signora di 65 anni, che ha iniziato come medico, con un dottorato in virologia e biologia tumorale al Karolinska Institute. Alla fine degli anni 80 però ha cambiato indirizzo professionale, cominciando a lavorare prima in Svezia e poi negli Stati Uniti come Medical Editor, con la Lifetime Television di New York, dove scrive e produce documentari scientifici per varie società e per la PBS. Grazie a questo comune impegno per il documentario e le trasmissioni scientifiche in tv, ho potuto conoscerla ed approfittare della sua presenza casuale a Stoccolma, in queste settimane, per incontrarla. Il quadro che mi fa del caso Svezia è molto interessante e per niente in linea con quello del Governo. Il contagio in Svezia arrivò il 26 febbraio 2020, con una donna rientrata dopo una settimana bianca in Lombardia. Mentre gli altri paesi scandinavi chiudevano le frontiere, la Svezia ha ignorato le misure di quarantena e loockdown. Seguendo lo spirito di fiducia verso i propri cittadini, l’Amministrazione pubblica ha preferito limitarsi a raccomandare restrizioni volontarie. Più recentemente il premier Stefan Löfven ha ammesso che: “Non eravamo abbastanza pronti ad affrontare la crisi e anche l’aver sciolto la Protezione Civile in passato si è rivelato un errore.” Dopo il primo caso di contagio l’infezione crebbe a fasi alterne, con variazioni dai 100 agli 800 contagi al giorno. Vennero chiuse le università e le scuole superiori per ragazzi maggiori di 16 anni. Le persone con più di 70 anni furono invitate ad auto isolarsi e la popolazione a non radunarsi in più di 50 (!) per volta. Venne incentivato il tele-lavoro. Si consigliò di evitare viaggi e frequentazione di luoghi affollati, come ristoranti, discoteche, chiese, stadi. In modo da seguire le regole di distanziamento sociale, sempre facendo perno sul senso di responsabilità dei cittadini. Tuttavia bar, ristoranti, negozi rimasero aperti, così come molte fabbriche e grandi industrie, tranne la Volvo che chiuse per poi riaprire e chiudere di nuovo, in diverse fasi del contagio.
Non tutti furono d’accordo con le misure adottate dal Governo svedese. La stessa Lena, dopo qualche settimana di attuazione, sostenne che il modello era un fallimento, visto la gran quantità di morti over 70, avvenute soprattutto nelle residenze per anziani. L’obbiettivo di proteggere i nonni era destinato all’insuccesso e lo si capiva fin da subito. Qual era il problema? Il confronto con l’andamento del contagio negli altri paesi scandinavi mostrava un numero di morti maggiore già a maggio 2020: 151 per milione in Svezia, contro 61 in Danimarca, 30 in Norvegia e 17 in Finlandia. La metà dei decessi svedesi è avvenuta nelle residenze per anziani. Anche se è vero che vennero proibite le visite da fuori, è stato dimostrato che infermieri e medici non adottarono le misure di protezione, come guanti e mascherine, per contenere la diffusione dell’epidemia. Fu allora che il Karolinska Institute dell’università di Stoccolma chiese ai medici di fare delle scelte, secondo un documento interno pubblicato poi dal quotidiano Aftonbladet. In pratica gli anziani con più di 80 anni non vennero considerati una priorità, così come quelli di 70 anni che avessero un problema a un organo e i 60-70enni sui quali si riscontrasse una patologia su più di due organi. Loro ne sono capaci, noi non ci riusciremmo mai.
Anche la comunità di immigrati è stata fortemente colpita dall’epidemia, sono circa il 25% della popolazione. I primi immigrati in Svezia erano finlandesi, poi col tempo sono arrivati i polacchi, gli africani, gli asiatici. Guidano i taxi, fanno le pulizie, accettano i lavori più umili. Quando sono fortunati fanno i calciatori. C’è un razzismo strisciante che si vergognano di dichiarare. La politica di apertura all’immigrazione ha portato in Svezia altri 400.000 stranieri, provenienti da Somalia, Iraq, Siria e Afghanistan, come ricongiungimento familiare. Questi stranieri sono sovra rappresentati tra i decessi di Covid 19, come ha denunciato Hans Bergstromm, professore dell’Università di Göteborg. Ovviamente si tratta di una popolazione povera, costretta a forme di vita promiscue, in sobborghi più simili a baraccopoli, con una forte densità abitativa, e con uno stato di salute minato da malattie e da criticità pregresse. La cosi detta “immunità di gregge” in definitiva non ha protetto gli anziani e nemmeno le categorie sociali più deboli. Il modello svedese aveva tuttavia anche un altro obbiettivo di non minore importanza. Quello di preservare l’economia e il livello di occupazione e benessere della società scandinava, anche a scapito di qualche sacrificio. La domanda che ci dobbiamo porre di fronte a queste decisioni è se occorre privilegiare la salvezza del sistema economico o quella di salvare più vite umane? Semplificando ci troviamo di fronte a due impostazioni etiche da sempre presenti in Europa, l’etica protestante che vede nelle attività produttive una realizzazione dell’individuo anche in chiave spirituale o quella di mettere al primo posto sempre e comunque la difesa della vita, di marca più cattolica. Come uniremo l’Europa se le nostre etiche sono così distanti?
Dopo aver ringraziato Lena Einhorn delle interessanti informazioni che ha voluto fornirmi, decido di andare a fare due passi. In Svezia si è dovuto affrontare la fase di recrudescenza del virus nell’autunno dell’anno passato, che di fatto ha aumentato le restrizioni che si volevano limitare. Dopo una drastica chiusura avvenuta in autunno adesso, dalla primavera, di nuovo si insiste con le aperture e l’immunità di gregge. Cosi i ristoranti sono di nuovo aperti. Percorsi stabiliti per i clienti, tavoli distanziati, mascherine e guanti obbligatori. Nei supermarket le cassiere sono protette da schermi di plexiglass. Ormai questo divisorio impera nei taxi, nei negozi, in tutti i luoghi pubblici. Qualcuno per strada non ha la mascherina o la tiene in modo sbagliato, per esempio lascia scoperto il naso. Chi usa i guanti a volte commette l’errore di toccarsi il volto o gli occhiali, in qualche caso li ripongono nel carrello della spesa, al ritorno a casa, invece di gettarli via.
Quasi sempre si rispettano le distanze. Ma questo è facile per gli svedesi che per indole culturale tengono a preservare un proprio spazio d’azione e sono piuttosto formali nei saluti. Ho scoperto che il 50% delle famiglie di Stoccolma sono composte da una persona. Anche per questo non è stato difficile abituarli a un controllo dei contatti. Nei parchi i ragazzi giocano tra loro senza apparenti misure di sicurezza. Mi trovo a camminare per la pittoresca zona di Gamla Stan, in uno dei centri storici europei meglio preservati.
È da qui che venne fondata la città nel 1252! Percorro stradine fatte di ciottoli che poi sboccano su piazze circondate da case gialle. Il Palazzo Reale, Stockholms slott, è una grande costruzione barocca eretta a partire dal 1697, residenza ufficiale dei Sovrani svedesi. È uno degli edifici più grandi al mondo, ha 600 stanze e se il Re Carlo XVI Gustavo vuole mantenere le distanze non ha certamente problemi.
Al suo interno c’è perfino un Museo, quello di Livrustkammaren, che conserva le armature e i vestimenti dei monarchi svedesi. A Gamla Stan c’è la più antica piazza della città, Stortorget, da cui parte la strada più vecchia, Köpmangatan. Fra le vie Västerlånggatan e Österlånggatan, c’erano un tempo le mura che difendevano la città. Al Corner Bar, al 66 della Västerlånggatan, ho appuntamento con il dr.Tae Hoon Kim, analista geopolitico ed economico sudcoreano che vive a Stoccolma. Mi ricorda il mio secondo viaggio a Seul, sempre ad analizzare i sistemi scelti per combattere l’epidemia. “Tae Hoon Kim” è lo stesso nome di un famoso attore cinematografico coreano ma lui non ha nulla a che vedere con il suo omonimo più giovane e famoso.
Il dr. Tae è qui per il suo Governo, a studiare l’impatto del modello svedese sugli effetti dell’epidemia. Sottolinea come tale modello non sia mai stato visto con favore dagli altri paesi occidentali. E con ragione. Se tutti praticano la quarantena obbligatoria, un paese che non la applichi, rischia di far saltare gli sforzi degli altri. L’impennata di contagi e morti dell’autunno passato ha costretto il Governo svedese a fare marcia indietro. Per alcuni mesi si sono trovati essi stessi isolati e sottoposti a test di verifica, ogni volta che si recavano all’estero, anche nella vicina Danimarca. Considerati come minimo dei portatori asintomatici di virus, anche quando non presentavano evidenti segni di infezione.
Si è sfiorato l’incidente diplomatico per un cittadino svedese scoperto infetto, all’aeroporto Charles De Gaulle a Parigi e subito ricoverato in ospedale. La mancanza di una strategia sanitaria condivisa in Europa è al centro del dibattito tra i paesi dell’Unione, come uno degli elementi su cui rifondare una nuova federazione tra Stati. Il messaggio di una Svezia più tollerante e aperta è stato visto come arrogante e improvvido dagli altri europei, i quali sono stati costretti a misure più drastiche, non perché meno liberali e democratici, ma perché più responsabili verso i propri cittadini. Del resto parlare di confini e di Stati in presenza di un’epidemia è da stupidi. Il nemico in questo caso non è di qualcuno ma di tutta l’umanità. Contrastarlo in ordine sparso significa fare il suo gioco. Il dr.Tae cita Marcus Carlsson, matematico della Lund University, che è arrivato al punto di accusare la Svezia di giocare alla “roulette russa” con la popolazione, in un video scaricabile da You Tube e pubblicato dal Guardian, una delle principali voci liberal del mondo. Il timore di creare un danno all’economia fermando tutto era anche alla base delle decisioni del Governo svedese. Sapevano che prima o poi bisognava riaprire e pensavano di assicurarsi l’immunità con la loro pratica. Ma questo non è un virus come gli altri. Si nasconde, attacca i vasi sanguigni, diventa letale in presenza di sistemi immunitari deboli. La quarantena che hanno adottato gli altri subito è un sistema antichissimo ma funzionale. Solo che, come in Corea, andava diagnosticato tempestivamente e bisognava avere strutture sanitarie efficienti e pronte per contrastarlo, c’è poco da fare. L’errore dei cinesi ma anche degli italiani, degli inglesi e degli americani è stato non accorgersene in tempo o negare l’evidenza, come fece Trump e gli è costata la rielezione.
Usciamo dal bar per fare due passi. Ci sono poche persone che passeggiano alle 5 del pomeriggio vicino Stortorget. Tutti i bar presentano avvisi perché i clienti utilizzino le mascherine e mantengano le distanze. Un vocio insolito ci attrae. Davanti a un pub irlandese giovani e meno giovani occupano le sedie della terrazza a gruppi di tre o di quattro, bevendo pinte di Guinness e Lager. Qualche famigliola passa nella stradina. Ci saranno almeno 20 persone tra interno ed esterno del bar. Karolina Ingelsson fa la cameriera lì da due mesi. Dice che questo è il numero massimo di clienti permesso dalla legge per il Covid-19. Tuttavia in tarda mattinata aumentano per via del sole. Hanno troppa voglia di stare all’aperto.
Qualcosa è cambiato. La paura ci ha preso tutti. Le misure sono abbastanza rispettate, qualcosa ci frena dal comportarci come prima. Così tutto si riduce a bere con gli amici, ridere, scherzare per poi tornare a chiudersi in casa con il tele-lavoro o il tele-studio. La Telia Company, il più grande operatore di telefonia mobile, ha rilevato un calo del 75% della mobilità complessiva in città e nel Paese. I viaggi verso Malmö o l’isola di Gotland, un classico pasquale, sono diminuiti del 96%. La gita del week end si è ridotta ai parchi cittadini o ai grandi centri commerciali. Non sono poche le attività che hanno chiuso. Molti negozietti, bar, lavanderie, artigiani. La difesa dell’economia alla fine non ha funzionato, anche perché la gente non spende più come prima. Dopo la chiacchierata, Karolina rientra nel pub e la vedo correre al bagno a lavarsi le mani. Non è per mancanza di rispetto, aveva detto prima di salutarci, è una norma igienica necessaria per la nostra tutela.
Chiedo a Tae in definitiva quale sia la giusta strategia per affrontare una pandemia come questa, alla luce delle varie esperienze internazionali. Dipende da molti fattori. Quello della tempestività è il più importante ma al tempo stesso devi avere strutture ospedaliere con i posti letto necessari e soprattutto i reparti in grado di reggere all’urto dei casi di terapia intensiva. Poi devi avere le dotazioni di mascherine, guanti e nel caso del personale sanitario anche le tute indispensabili per curare i casi più gravi. Avere le ambulanze attrezzate.
E non basta. In Corea del Sud abbiamo attivato anche delle “app traccianti” per individuare le zone e le persone contagiate. Per attivare queste cose occorre una normativa che ne garantisca l’uso, pronta per contrastare i comportamenti irresponsabili, bloccare le visite negli ospedali, gli spostamenti di malati infetti, la destinazione di alcune strutture sanitarie in esclusiva alla cura della pandemia. Non si possono curare malati infetti accanto a quelli convenzionali. E non basta ancora. Quello che ha in parte salvato gli svedesi è la buona condizione di salute della popolazione locale. La stessa epidemia a Stoccolma e a Calcutta ha effetti differenti, anche solo per lo stato di salute generale.
Ma già negli Stati Uniti la popolazione era in peggiori condizioni della Svezia e infatti s’è visto com’è andata. Se avessero applicato la strategia svedese negli Stati Uniti sarebbe stata un’ecatombe. Questo lo hanno sostenuto ricercatori come Ian Bremmer, Cliff Kupchan e Scott Rosenstein, analisti politici del gruppo Eurasia. Giustamente bisogna fare delle scelte ragionate. Non si deve scegliere tra la chiusura a tempo indeterminato e la roulette russa del tutto aperto. È necessario che si verifichi una transizione che bilanci i rischi in gioco. “Un approccio più mirato all’allontanamento sociale può essere adottato quando i tempi lo richiedono, quando i vecchi metodi di salute pubblica possono favorire un graduale allentamento delle restrizioni in un modo che può essere modificato man mano che si impara di più e si sviluppano nuovi strumenti – trattamenti, comprensione dell’immunità, miglioramenti dei test e dati epidemiologici”. La chiave “non è abbassare la guardia troppo presto e troppo in fretta e mettere in moto un’infrastruttura di test e di ricerca dei contatti che consenta di identificare precocemente le epidemie e di isolare e mettere in quarantena, se necessario. Queste cose – non l’esperienza di un singolo paese ma di tutti – dovrebbero guidare i nostri prossimi passi”.
Arriviamo a un ristorantino a Stureplan. Sulla pista ciclabile passano giovani, mamme, ragazze. Nessuno alza la voce, nessuno grida, nessun clacson ci disturba. Quasi tutti i tavoli sono occupati anche se è quasi mezzanotte. Sono giovani sorridenti ma affatto rumorosi. È la loro maniera di socializzare.
Secondo i clienti di questo bar, l’isolamento ritarda semplicemente il contagio, non è un rimedio affidabile contro il Covid-19. Non hanno ancora capito che la battaglia non si vince con una sola arma. I camerieri hanno voglia di andare a casa, qualcuno fuma appoggiato a un muro, con la mascherina abbassata. Rischia una multa. Portano il conto ai tavoli. Mettono via le prime sedie. Due o tre volte a settimana, senza preavviso, ricevono la visita delle autorità sanitarie che controllano le distanze dei tavoli, i guanti, le mascherine dei clienti e dei camerieri. Il Covid 19 ha cambiato le nostre vite, il nostro modo di sentire e di fare ma niente ci può impedire di tirare a tardi nel bar la sera con gli amici, come ai bei tempi.
Il giorno seguente lo dedico a me stesso e alla città. Camminando per i viali senza alberi, tra grandi palazzi barocchi ricchi di ornamenti e fregi, piazze in stile tedesco, osservo i tetti dei campanili in stile gotico. Sono appuntiti come i cappelli delle streghe delle fiabe, mi ricordano le torri di Praga. Ci sarà un nesso architettonico o qualche altro nesso, ma non saprei quale. Forse ai fatti che risalgono alla Guerra dei Trent’anni, per l’egemonia tra le potenze europee nel 1600. In fondo non ci conosciamo tanto bene con questi vichinghi. I tram blu elettrico attraversano le rotaie al centro del viale, seguiti dai bus rosso vermiglio a due piani, come a Londra. Gli Sverigetaxi 020 sono quelli gialli e hanno la licenza legale. Gli altri sono neri. I mezzi pubblici a Stoccolma usano l’etanolo e l’impatto ambientale viene ridotto dalla diffusione delle vetture a gas o elettriche, tanto che Stoccolma è stata definita la Capitale Verde d’Europa. Per entrare in centro con una vettura a targa svedese, nei gironi feriali, tra le 6.30 e le 17, c’è da pagare un pedaggio di 10, 15 o 20 Corone. La telecamera registra la targa e ti arriva a casa mensilmente la fattura di quanto dovuto all’amministrazione.
Si cammina bene a Stoccolma e comunque si trovano spesso le panchine per una sosta. Sono di tutte le fogge, tonde, quadrate e rettangolari, di ferro, legno e cemento. Sono sufficientemente ampie per stare comodi ma anche abbastanza dure per costringerti ad alzarti dopo qualche minuto. Anche le insegne sono sobrie, non appariscenti, discrete. Le uniche cose colorate, oltre i mezzi pubblici, sono le divise dei vigili urbani, gialle limone. Mentre cammino vicino alle mura grigie dei palazzi, mi rendo conto che non ho incontrato anziani. Non ci sono vecchi per strada! Non voglio pensare che siano spariti del tutto, magari che siano in autoisolamento. Forse nessuno li ha avvisati che con le dovute cautele potrebbero uscire. Forse non vogliono che escano. La polemica sulle RSA infuria ancora come quella in Lombardia.
Magnuss Bondesson, un informatico sviluppatore di app, ha rilasciato un’intervista al Guardian, dove accusa il Governo di aver sacrificato gli anziani per salvare l’economia, non riuscendovi peraltro. “Quando io ho chiamato via Skype la casa di cura dov’era ricoverata mia madre, per parlare con lei, gli infermieri mi dissero che non potevano passarmela perché non avevano le maschere e i guanti di protezione per recarsi nella sua stanza. Allora ho chiesto come mai e come facessero ad accudirla. Mi risposero che stavano rispettando le linee guida del governo e che solo a determinate ore, venivano dei medici e degli infermieri addetti a questi anziani più gravi.” Stoccolma è una città che aveva, e forse continuerà ad avere, una intensa vita culturale.
La città ha un castello (Drottningholm) e un cimitero chiamato Skogskyrkogården, che rientrano tra i siti patrimonio dell’umanità dell’UNESCO. È sede dei Premi Nobel, assegnati ogni 10 dicembre a insigni personalità della Letteratura, della Fisica e della Chimica ma anche a chi ha lavorato per la Pace nel Mondo. È sede di biblioteche, archivi, accademie, cattedrali, chiese, insomma rappresenta un elemento importante della storia e della civiltà europea. Come si concilia tutto questo con il sacrificare i propri anziani in nome di un vantaggio economico? Domani prendo il primo volo per Punta Cana e torno a casa nel mio adorato Terzo Mondo.
AVVERTENZA. I dati, i personaggi e le informazioni che trovate in questo articolo sono in parte veri e in parte un’opera di fantasia. Le vicende di viaggio sono ambientate in un futuro ipotetico, anche se abbastanza possibile.