La capitalizzazione azionaria di Bitcoin ha superato i 188 miliardi di dollari in questo momento e il suo valore attuale oscilla attorno agli 11 mila dollari, in netto rialzo dopo lo svarione di luglio, quando era sceso ben al di sotto della soglia dei 10 mila dollari.
Numeri che danno sostanza alla criptovaluta più popolare a diffusa al mondo e a cascata a tutte le altre, come Ethereum, Litecoin e Monero, per citare altre monete digitali in forte crescita.
Eppure, attorno a questo sistema di pagamento, i dubbi sono sempre stati molti, sia in termini di sicurezza e legalità delle transazioni, sia in termini prettamente finanziaria, tra chi lo considera un valido sistema di pagamenti e chi invece ne mette in discussione la stessa natura di moneta.
Su quest’ultimo punto, si è espressa la International Financial Reporting Standards Foundation, organizzazione senza scopo di lucro che si occupa di sviluppare e promuovere gli standard mondiali delle regole contabili.
Su richiesta dello Iasb (International Accounting Standards Board), organismo responsabile dell’emanazione dei principi contabili internazionali, la Fondazione ha dato la sua opinione in merito al trattamento contabile da riservare alle criptovalute, ribadendo sostanzialmente che non hanno natura monetaria, ma che possono essere considerate “rimanenze di magazzino” o “attività immateriali”.
Perché non sono una moneta? Perché, come hanno spiegato Fabrizio Cancelliere ed Armando Tardini in un articolo di oggi sul Sole 24 Ore, “le monete virtuali non assolvono la funzione tradizionale della moneta, non essendo utilizzate universalmente come mezzo di pagamento e peraltro alle stesse non si aggancia alcun diritto o obbligo contrattuale, requisito necessario per la classificazione come strumenti finanziari”.
Una valuta tradizionale, di norma, è emessa da stati o gruppi di stati (come nel caso dell’euro), per lo più attraverso la propria banca centrale in regime di monopolio, ma in alcuni stati esistono più istituti di emissione.
Se si accetta la criptovalute come mezzo di pagamento è su base volontaria.
Questa può essere scambiata in modalità peer-to-peer (ovvero tra due dispositivi direttamente, senza necessità di intermediari), per acquistare beni e servizi (come fosse moneta a corso legale a tutti gli effetti), proprio grazie al consenso tra i partecipanti alla relativa transazione.
Una definizione, hanno sottolineato gli autori dell’articolo, che contrasta anche con le autorità italiane ed europee. Secondo l’Agenzia delle Entrate, infatti, da un punto di vista fiscale, le criptovalute sono da considerarsi al pari di valute straniere.
Un punto di vista già espresso anche dalla Corte di Giustizia europea in una sentenza del 2015.
Sull’argomento anche gli Stati Uniti si stanno confrontando e sempre sul Sole 24 Ore di oggi è riportato che il Fisco americano ha inviato più di 10 mila avvisi ai contribuenti che hanno effettuato operazioni con criptovalute.
In ogni avviso è spiegato agli investitori quelli che sono “gli obblighi tributari e dichiarativi”, invitandoli a sanare ogni tipo di inadempimento, anche passato, e a versare il dovuto nelle casse dello Stato, con tanto di interessi maturati.
Chi non si adeguerà si troverà a pagare molto di più alla fine delle ovvie indagini e in alcuni casi, si legge nell’approfondimento di Fabrizio Cancelliere, rischierà anche provvedimenti penali.
Una mossa che può avere diverse interpretazioni. Oltre l’evidente volontà di raccogliere il dovuto all’erario americano, c’è anche la necessità di adeguare gli standard fiscali nazionali ed internazionali alle novità del mercato crescente globale delle criptovalute.
Aumenta la capitalizzazione e si moltiplicano le transazioni giornaliere, partendo da questi due semplici evidenze è fondamentale per le istituzioni finanziarie nazionali cercare di raccogliere il maggior numero di informazioni fiscali sulla gigantesca platea dei cripto-investitori.